La democrazia normale che non verrà
A sentir loro nel 2013 si faranno le riforme istituzionali. E gli italiani avranno uno Stato dal volto umano, con meno parlamentari, maggiore efficienza, più poteri al premier, sfiducia costruttiva, funzioni differenziate fra le due Camere. A sentir loro, i sempre meno amati politici, sarà questo il punto d’arrivo del processo riformatore. E anche la data - lo notiamo per inciso - avrebbe, per pura coincidenza, un significato simbolico. Nel 2013 ricorrerà il trentesimo anniversario della istituzione della commissione bicamerale per le riforme istituzionali guidata da un galantuomo d’altri tempi, Aldo Bozzi, un fine giurista che credeva davvero alla possibilità di ammodernare l’architettura dello Stato e che lavorò a tal fine, e fece lavorare, con impegno. Il risultato fu quello che fu: un nulla di fatto. Non basta. Sempre nel 2013 ricorrerà pure il ventesimo anniversario dell’approvazione della legge costituzionale che attribuiva a un'altra commissione bicamerale, la cosiddetta commissione De Mita-Iotti, il compito di elaborare un progetto organico di revisione dell’apparato istituzionale. Anche in questo caso, il risultato fu lo stesso: nulla di fatto. Non basta ancora: nel 2013, sarà stata superata d’un soffio la quindicesima ricorrenza di un’altra commissione bicamerale per le riforme istituzionali, la cosiddetta commissione D’Alema, istituita all’inizio del 1997 e finita, al solito, con un nulla di fatto. Quello delle ricorrenze nefaste è solo un gioco. E, se davvero, come dicono loro, i signori parlamentari, si giungerà in porto, nel 2013, allora verrà sfatato il carattere iettatorio delle coincidenze. E sarà un bene per tutti. Allo stato delle cose non tutto sembra scivolare liscio. Sulla riduzione del numero dei parlamentari per esempio - un provvedimento che, piaccia o non piaccia ai nostri deputati e senatori, rappresenta, per l'opinione pubblica, la cartina di tornasole della serietà dei propositi riformatori - le acque non sono calme. Una cosa è certa, almeno a dare ascolto alle ipotesi che circolano informalmente. Il «dimezzamento» della casta non ci sarebbe e, nella migliore delle ipotesi, si arriverebbe a un «dimagrimento». Dei quasi mille parlamentari italiani, fra deputati e senatori (con la bizzarra appendice dei senatori a vita) ne verrebbero eliminati, insomma, al massimo, più o meno due centinaia, col risultato che le aule parlamentari italiane sarebbero sempre, rispetto a quelle delle altre democrazie occidentali, tra le più affollate. Come se non bastasse, è stata avanzata anche la grottesca proposta di ridimensionare il «dimagrimento» aggiungendo una trentina di seggi da dividere tra le forze minori (si prega di non ridere!) per «diritto di tribuna»: il che significherebbe, in parole povere, un manipolo di persone, a carico dei cittadini, senz'altra funzione se non quella di rallentare i lavori con interventi che non verranno presi in considerazione e ininfluenti dichiarazioni di voto. Un'ipotesi grottesca, e ai limiti della costituzionalità perché, diciamolo a chiare lettere, introdurrebbe, surrettiziamente, l'idea che gli eletti siano «rappresentanti delle forze politiche» e non «rappresentanti del popolo». Se il buon giorno si vede dal mattino le premesse non sono rosee. La tanto sbandierata intesa sulle riforme siglata da Angelino Alfano, Pier Luigi Bersani e Pier Ferdinando Casini, continua a essere nebulosa. Troppo nebulosa per essere realistica. I partiti, i quali tutti dicono di volerla (in realtà lo sostenevano sin dagli anni Cinquanta) non vanno oltre le affermazioni di principio. Perfino sulla modifica del meccanismo elettorale che, in teoria - non necessitando del ricorso al complesso iter di approvazione di leggi costituzionali - potrebbe essere varata con il ricorso a una legge ordinaria la convergenza è di là da venire. La vicinanza delle amministrative rende prudenti: Bersani, dopo aver attaccato il Porcellum in ogni modo e in ogni sede, mette in guardia, all'indomani delle primarie genovesi del Pd contro le tentazioni proporzionaliste che potrebbero mettere in crisi la "dialettica bipolare". Alla fine, com'è probabile e come già si sussurra da più parti, non si farà nulla. I nostri politici, terrorizzati dall'ondata montante di antipolitica e dalla discesa abissale della fiducia degli italiani nei partiti, non hanno neppure più la capacità di rendersi conto che i processi riformatori non sono affatto processi rivoluzionari e garantiscono invece la sopravvivenza, il rinnovamento, la solidità del sistema politico. Durante il dibattito sul First Reform Bill del 1832, Thomas Babington Macauley lanciò un'esortazione a sostegno della riforma elettorale: «Riformate affinché possiate conservare». Il First Reform Bill, simbolo dell'incipiente età vittoria, fu approvato e il paese ne trasse guadagno. Ma si era in altri tempi e, soprattutto, in un altro paese. Se il cammino per giungere a una modifica del vigente sistema elettorale si sviluppa tortuosamente attraverso veti incrociati e difficoltà all'apparenza insuperabili, è difficile immaginare che l'annunciata intesa sulle riforme istituzionali possa tradursi in realtà nel 2013. È più facile che il 2013 sia destinato a diventare, per i posteri la data di un'altra ricorrenza destinata a ricordare la mancata nascita di una democrazia normale.