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L'arresto che portò in carcere un'epoca

Mario Chiesa

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Quel lunedì 17 febbraio 1992 stava finendo in modo tranquillo nella redazione de «Il Giorno», che dirigevo da quasi tre anni. Il lavoro impostato nella seconda delle tre riunioni quotidiane con i capi dei vari servizi, verso le ore 16, non era stato sconvolto da nessun fatto nuovo. Eravamo scampati anche alle frequenti e simpatiche picconate dell'allora presidente della Repubblica Francesco Cossiga. Con le quali ci eravamo ormai abituati a fare i conti cambiando tutto proprio nel momento di chiudere. L'ultima delle riunioni, quella delle ore 19, stava per concludersi con la conferma delle decisioni precedenti quando il capocronista segnalò una notizia appena arrivatagli: l'arresto del socialista Mario Chiesa, presidente della Baggina, come a Milano viene chiamato comunemente il Pio Albergo Trivulzio, un istituto ospedaliero e pensionato di anziani molto noto e apprezzato. L'arresto era avvenuto alle ore 17,30 in flagranza di reato, mentre Chiesa riscuoteva una rata di tangente di sette milioni di lire dal titolare dell'impresa di pulizie, Luca Magni. Che, stanco di pagare, lo aveva denunciato concordando con l'allora sostituto procuratore della Repubblica Antonio Di Pietro la consegna di banconote contrassegnate per farne prove inoppugnabili. Conoscevo Chiesa, ed anche i suoi rapporti con la famiglia di Bettino Craxi, più in particolare con il figlio Bobo. L'appoggio alla cui campagna elettorale come candidato a consigliere comunale di Milano, qualche anno prima, lo aveva fatto rientrare nel giro del leader socialista, dopo un distacco avvenuto quando Chiesa era assessore provinciale. E si erano addensate attorno a lui le prime voci su una certa disinvoltura, attribuitagli a torto o a ragione già allora, nella raccolta dei fondi di finanziamento locale del partito socialista. Il fatto che fosse stato colto in flagranza di reato, per quanto l'arresto non fosse stato ancora comunicato dalle agenzie, mi indusse a destinare la notizia anche in prima pagina, con un grosso titolo centrale di richiamo del servizio sistemato nella cronaca di Milano. Sull'attendibilità dei cui redattori e informatori non avevo dubbi, essendosi già distinti proprio con la Baggina denunciando una brutta storia di affari di pompe funebri sulla quale la Procura aveva finito per aprire un'indagine. Qualche dubbio però mi venne la mattina dopo, lo confesso, quando non trovai il particolare della flagranza nell'arresto di Chiesa sui giornali concorrenti, che avevano peraltro evitato di riferirne in prima pagina. Chiesi perciò nella prima riunione, al giornale, conferma di quella circostanza al capocronista. Avendola ottenuta, ritenni chiuso il capitolo. Che invece dopo qualche giorno mi ritrovai incredibilmente aperto da qualche concorrente. Al quale evidentemente la richiesta di conferma della notizia al capocronista era stata riferita come una ramanzina dettata dal mio desiderio, in quanto amico di Craxi, di mettere la sordina al fatto. Che invece ero stato l'unico – ripeto – a «sparare» in prima pagina, come si dice nel nostro gergo. Cose purtroppo d'ordinaria perfidia, chiamiamola così. Il caso volle che il giorno dopo l'arresto di Chiesa io avessi ospite a pranzo a casa mia, per un appuntamento preso nella settimana precedente, il mio carissimo amico Paolo Pillitteri, cognato di Craxi, reduce da una crisi della giunta comunale di sinistra che aveva portato alla sua sostituzione come sindaco di Milano con l'ex comunista Giampiero Borghini. Un'operazione, questa, che era stata voluta e gestita personalmente da Bettino, cui Pillitteri aveva aderito preferendo candidarsi nelle ormai imminenti elezioni politiche di aprile per tornare a fare il deputato. Come poi avvenne, sia pure per una legislatura che sarebbe durata meno di due anni, travolta dalla bufera di Tangentopoli e dalla smania del Pds-ex Pci di raccogliere il frutto dell'albero scosso dai magistrati in un turno di elezioni anticipatissime. Che invece sarebbero state vinte a sorpresa da Silvio Berlusconi. A pranzo con Pillitteri, presente anche il comune amico e suo addetto stampa di allora Gianvito Lomaglio, portai subito il discorso sull'arresto di Chiesa. Che Paolo commentò, con mia grandissima sorpresa, ridendo. Sì, ridendo. Rise della faccenda in sé, per via di quei sette miserabili milioni, ma anche di altri buttati nello scarico del bagno, e per lo stesso Chiesa. Di cui si diceva, fra i socialisti a Milano, a torto o a ragione, che avesse deciso di sostenere la candidatura di Bobo Craxi a consigliere comunale nelle precedenti elezioni per potersi poi proporre lui, la prossima volta, a sindaco della città. Un progetto, questo, se fosse veramente mai esistito, che doveva ritenersi finito con la staffetta appena avvenuta a Palazzo Marini tra Pillitteri e Borghini. Il quale era stato evidentemente prescelto da Bettino non solo per condurre a termine la consiliatura in corso, ma anche per tentare la conferma nella successiva, non potendosi allora prevedere il deragliamento cui erano destinati il Psi, le sue alleanze e, più in generale, l'intero sistema politico. Le risate dell'ormai ex sindaco di Milano mi indussero a pensare, sbagliando, che la vicenda di Chiesa fosse a tutti gli effetti modesta, e magari riconducibile ad una delle tante faide interne di partito. In più, ebbi l'impressione che Pillitteri si fidasse in qualche modo del magistrato che conduceva l'indagine. Di cui egli era amico noto e dichiarato. E che magari, tra una cena e un pranzo, tra una festa e un convegno, proprio lui aveva involontariamente aiutato a conoscere meglio cose e uomini del Psi milanese. Non immaginava, Paolo, le dimensioni e gli sbocchi di quella vicenda, pur nata nel massimo della casualità immaginabile. Chiesa, per esempio, era finito sotto le lenti della magistratura penale, prima ancora che per il giro delle tangenti, per un maldestro tentativo di risparmiare sull'assegno dovuto alla moglie, dalla quale si era separato per essersi innamorato di un'altra donna. E che, davanti al giudice che si occupava degli alimenti, gli aveva contestato le resistenze ad un aumento degli alimenti rinfacciandogli i conti tenuti illegalmente all'estero. Un cui elenco, forse con il suo aiuto, era destinato a finire fra le carte degli inquirenti di «Mani pulite», come vennero chiamate subito le indagini sulle tangenti. Intestati a tanti nomi di acque minerali, quei conti consentirono a Di Pietro di far capire a Chiesa, sotto interrogatorio, che c'era ormai ben poco da nascondere, essendo «esaurite le riserve», appunto, «di acqua». In più, Craxi aveva nel frattempo liquidato l'arrestato, in un comizio, come «un mariuolo», facendogli passare la voglia, se mai l'avesse avuta, di sottrarsi alla curiosità degli inquirenti e di diventare quello che poi fu per il Pds-ex Pci Primo Greganti: un imputato irriducibile nell'assumere su di sé le responsabilità dei traffici finanziari contestatigli, tenendo rigorosamente fuori il partito e i suoi dirigenti. Quanto poi a Di Pietro, ammesso e non concesso che fosse tentato di mischiare amicizie personali e lavoro d'inquirente, il suo superiore Francesco Saverio Borrelli, l'allora capo cioè della Procura di Milano, gliene fece passare la voglia, o l'occasione, affiancandogli rapidamente nelle indagini Gherardo Colombo. Che più lontano dal giro dei socialisti non poteva essere. Ma Di Pietro, fra tutti i magistrati di quella Procura, era anche quello più in grado di valutare con acutezza, a dispetto delle sue espressioni, dei suoi congiuntivi e delle sue smorfie, la ormai irrecuperabile debolezza del sistema politico. Nel quale, quindi, aveva capito che la magistratura avrebbe potuto affondare il coltello come nel burro. A fare aprire gli occhi di «Tonino», come gli amici chiamavano e chiamano Di Pietro, su quella debolezza aveva fortemente contribuito addirittura Cossiga. Lo aveva fatto con un messaggio inviato alle Camere il 26 giugno 1991 sulla urgenza delle riforme costituzionali, giustamente ricordato ieri dal direttore de Il Tempo Mario Sechi a «Omnibus», de La 7, in un confronto sui vent'anni di «Mani pulite» proprio con Di Pietro, Maria Teresa Meli, del Corriere della Sera, Marco Damilano, dell'Espresso, autore di un libro appena uscito su quegli anni, e Maurizio Paniz, avvocato e deputato del Pdl. Quel messaggio di Cossiga, che invitava praticamente la politica a rigenerarsi con una radicale riforma della Costituzione dopo il crollo del comunismo e le barriere, ideologiche e non, che da esso erano derivate, era stato lasciato cadere colpevolmente nel vuoto tanto dai partiti allora al governo quanto dall'opposizione di sinistra. Che si erano trovati accomunati un po' dalla presunzione di poter sopravvivere senza curarsi a quella specie di infarto politico che avevano subìto, un po' dalla speranza di ciascuno di poter trarre giovamento dalle difficoltà altrui, un po' dalla lettura dell'iniziativa di Cossiga come di un suo maldestro tentativo di farsi scudo della riforma della Costituzione per essere confermato l'anno dopo alla Presidenza della Repubblica, come garante, magari a termine, di un processo riformatore già avviato o delineato. L'anticossighismo, cresciuto nella stagione delle sue picconate, aveva affondato quel passaggio prezioso della storia politica italiana, così come l'anticraxismo poi affondò la sinistra possibile del post-comunismo, e l'antiberlusconismo avrebbe molto dopo affondato la cosiddetta Seconda Repubblica. Scarpe grosse, cervello fine. Di Pietro aveva quindi saputo leggere bene il senso del rifiuto opposto da tutti a quel messaggio di Cossiga, avvertendo il vuoto che stava creandosi, a riempire il quale qualcuno prima o dopo avrebbe provveduto per legge fisica. Di Cossiga, d'altronde, Di Pietro aveva pubblicamente preso le difese nel momento del suo più acuto scontro, pensate un po', con i magistrati. Egli si era rifiutato, in particolare, di partecipare ad uno sciopero indetto contro il capo dello Stato dal sindacato delle toghe. E aveva affisso il suo no, con un cartello, alla porta dell'ufficio nel Palazzo di Giustizia a Milano. Cosa che naturalmente Cossiga aveva apprezzato moltissimo instaurando con lui un rapporto destinato a ingelosire o insospettire in qualche modo Borrelli. Che in una biografia autorizzata, scritta da Marcella Andreoli e pubblicata da Baldini & Castoldi nel 1998 con il titolo «Borrelli- Direttore d'orchestra», avrebbe rivelato di non essere informato delle indagini di Di Pietro nei primi mesi del 1992 come l'allora capo dello Stato. Del cui stato di conoscenza del lavoro giudiziario il capo della Procura si era accorto conversando con lui durante una festicciola della Guardia di Finanza a Linate. In quel libro si racconta anche della volta in cui Borrelli nel 1991 si era candidato a succedere ad Adolfo Beria d'Argentine alla Procura Generale della Corte d'Appello di Milano. Per quanto già contattato e ascoltato dalla competente commissione del Consiglio Superiore della Magistratura, egli si era visto scavalcato da una tardiva candidatura di Giulio Catelani. A far pendere la bilancia a favore di ques'ultimo, anche se la biografia di Borrelli non lo dice, era stato un cambio di orientamento intervenuto a livello politico, in particolare al vertice nazionale del Psi, per quanto la candidatura di Borrelli fosse stata sostenuta dagli esponenti milanesi del partito. Che cosa avesse indotto Bettino Craxi e l'allora ministro della Giustizia Claudio Martelli a far pendere la bilancia a favore di Catelani non si capì mai bene, anche se circolarono a lungo voci secondo le quali ci sarebbe stato lo zampino personale dell'allora presidente del Consiglio Giulio Andreotti. Il quale avrebbe visto e indicato nell'età di Catelani, più prossima di quella di Borrelli alla pensione, e nella sua provenienza da un distretto giudiziario diverso da Milano, quello di Firenze, due ragioni valide a suo favore. Comunque fossero andate le cose, Borrelli, peraltro destinato poi a scontrarsi con Catelani in alcuni passaggi della vicenda di «Mani pulite», e comunque a succedergli, sia pure non direttamente, certo non dovette prenderla bene. E se all'esplosione di Tangentopoli egli non si lasciò mai influenzare dal ricordo di quella mancata nomina, conservando il distacco e la freddezza imposti dal suo ruolo, e dalle drammatiche circostanze in cui si trovò ad agire, fu veramente bravo.

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