Noia e vergogna, binomio letale
Che vergogna, che imbarazzo, che noia. Che presunzione, protervia, burbanza. Che petulanza, megalomania, incapacità. Sto parlando di quest'ultimo ignobile festival di Sanremo. Che tuttavia, proprio per il suo manifesto, indecente, sfacciato carattere di pretenziosa impostura, potrebbe anche essere un'espressione abbastanza fedele del momento che il nostro paese sta vivendo. Lasciamo perdere le canzoni, che quando non sono orrende sono comunque penose e moleste. Lasciamo perdere anche i cantanti, che solo in rarissimi casi (il solo rispettabile credo che sia quello di Chiara Civello, che è riuscita a far vibrare e luccicare una canzone appena decente) hanno mostrato di avere almeno il solo attributo – una bella voce – che potrebbe giustificare le loro pretese. Lasciamo perdere pure Celentano, che più cerca di impegnarsi nel ruolo di predicatore e di guru più sembra capace di esprimere solo una prosopopea perfettamente adeguata alla sua micidiale idiozia apocalittica. Lasciamo perdere anche il povero Gianni Morandi, che messosi per la seconda volta al servizio di questo baraccone non è riuscito a fare quasi altro che dirsi tanto contento di esser tornato lì. Parliamo piuttosto dello stile di tutta l'impresa, che appare dominata dall'ambizione assolutamente ridicola di trasformare quello che dovrebb'esere uno show di alcune ore di piacevole intrattenimento in un pomposo assemblaggio di sermoni, predicozzi e comizietti immersi in una zuppa inutilmente sfarzosa di suoni e luci rivelatrici di un unico intento: l'oscena volontà autocelebrativa delle cricche di viale Mazzini. E soprattutto parliamo della quasi totale assenza di vero talento che emerge da quasi ogni momento di questo rito non meno insolente che vacuo. Una volta gli attori, soprattutto i comici, e specialmente quelli di serie B, venivano chiamati “guitti”. Ma i pagliacci che in questi giorni a Sanremo vanno sfoggiando le loro pretese profetiche, i loro afflati apostolici, le loro manie predicatorie, non sono nemmeno “guitti”. Anche i peggiori dei vecchi guitti sapevano almeno fare qualcosa. Questi buffoni promossi da mamma Rai al rango di massimi tribuni e missionari non del nostro paese non sanno invece fare letteralmente niente. Nemmeno raccontar bene una barzelletta, snocciolare con grazia una battuta, abbozzare con estro una macchietta. Sanno solo prodursi nell'esternazione incessante dalla loro comica convinzione di essere degli impegnatissimi assi della satira politica e del messaggio civile. Che cosa è accaduto negli ultimi anni nel mondo del nostro show business perché quell'incantevole fucina di grandi e umilissimi comici, bravi compositori e parolieri, provetti maestri dello sketch, scaltri sceneggiatori e registi dell'avanspettacolo d'antan, si trasformasse in una fabbrica di boriose scemenze ideologiche, di scocciatori privi di una briciola di spirito travestiti da missionari, di scribacchini incapaci di immaginare dei dialoghetti decenti in presunti maestri del Vangelo dell'amore universale? Chi ricorda l'èra ormai leggendaria dei grandi Totò, Macario, Taranto, Chiari, Dapporto, Bramieri, Sordi eccetera eccetera, chi ricorda soprattutto la loro grazia, intelligenza, ironia e sapienza scenica, non può non concludere che quel che è accaduto nel nostro mondo dello spettacolo è una catastrofe non molto diversa dalla trasformazione di tutto il nostro paese in una congrega ubiquitaria di tronfi e saccenti rompiballe votati alla chiacchiera similpolitica. Eppure come ridono e applaudono contenti e soddisfatti gli ottimati della Rai dalle prime file dell'Ariston per far capire ai loro beniamini dello spettacolo quanto sono loro grati del servigio che essi, dal palcoscenico di quel teatro, stanno fornendo all'azienda coi loro uggiosissimi pistolotti. E come sono felici quei beniamini di poter esprimere la loro gratitudine a quei loro generosi fornitori di protezione e quattrini salutandoli andoli tutti affettuosamente per nome come fossero colleghi e conniventi in una stessa equivoca avventura….