Un conto troppo salato
Un anno fa commentavamo la candidatura di Roma 2020 come una straordinaria opportunità per la capitale ed il Paese. Ma in questo anno sono accadute più cose – quasi tutte in negativo – che negli ultimi vent’anni. Per questo il no del governo mi sembra una soluzione dolorosa e controversa, ma destinata, nell’incertezza, ad evitare guai maggiori. Cominciamo dai soldi. Lo Stato non ne ha e, per quanto elevato fosse il contributo di imprese e sponsor, l’idea che l’Italia di oggi possa mettere sul piatto 4,7 miliardi certi di capitali di contribuenti già stremati, in attesa di denari privati e ritorni incerti, non è praticabile. Non lo è da quando la crisi ha costretto tutti a rifare i conti. Citiamo i risultati della commissione di compatibilità presieduta da Marco Fortis: a fronte dell’impegno governativo (una vera fidejussione staccata dal Tesoro), il ritorno tra sponsorizzazioni, vendita di biglietti e diritti, valorizzazione immobiliare ed altro sarebbe stato di 3,5 miliardi. Ne mancavano all’appello 1,2 che potevano essere coperti da privati: senonché si tratta degli stessi soggetti chiamati a costruire impianti e infrastrutture, dal villaggio Olimpico a strade, metropolitane e ferrovie. Per loro, per i privati, il conto rischiava di essere ancora più salato. La commissione lo stima in 5,3 miliardi. Con una grossa incognita: che le opere realizzate in appalto fossero vittime di rimborsi dilazionati all’infinito. Le vicende del ponte di Messina o dello stesso metrò di Roma sono lì a testimoniarlo: lo Stato italiano è un pessimo pagatore ed un mediocre concessionario. L’unica alternativa sarebbe il project financing, cioè un preponderante intervento di capitali privati finanziati fin da subito sul modello del passante di Mestre, il cui pedaggio sta ripagando l’opera ed altre infrastrutture del Veneto. Ma bisogna ammettere che Roma e il Lazio non hanno questa capacità di fare sistema. Basta vedere le barricate contro la messa a profitto del raccordo anulare, le baruffe sul piano casa tra comune e regione in mano alla stessa maggioranza politica, sulla discarica, sui porti turistici e su altro ancora. Ma si è finora parlato di costi stimati. Ben altra cosa sono quelli finali, dove vantiamo un’altra pessima tradizione. Non solo italiana, certo: i costi di Londra 2012 sono raddoppiati, ma il paragone più infausto è ovviamente con Atene, un’Olimpiade smagliante nello svolgimento e nel lifting della capitale greca, ma che ha purtroppo contribuito al dramma attuale. E siccome ci occupiamo di Roma non si possono dimenticare due precedenti: i mondiali di calcio del ’90 e quelli di nuoto del 2009. Tutti abbiamo presente la triplicazione di costi per il rifacimento dell’Olimpico senza uno straccio di parcheggio, le stazioni della metropolitana aperte per tre giorni ed altre tragiche amenità. O la città del nuoto di Santiago Calatrava fra i pratoni incolti di Tor Vergata. Per non parlare delle inchieste e degli scandali, veri o presunti. Resta il fatto che delle piscine ha dovuto alla fine occuparsi la Protezione civile di Guido Bertolaso. Resta il rimpianto per le mancate ricadute sull’occupazione e sul Pil. Ma anche questo serva da lezione: Roma non deve andare avanti solo per eventi eccezionali. Si citano sempre come modello le Olimpiadi del 1960, che contribuirono al decollo internazionale della capitale e lasciarono infrastrutture che ancora durano. Ma era oltre mezzo secolo fa. Oggi Roma come ogni metropoli globale deve potersi rinnovare, urbanisticamente e architettonicamente, per via ordinaria. E se c’è da sacrificare un sasso antico di nessun valore, o un boschetto di canne, lo si faccia come in tutto il mondo. Accade a New York, a Parigi, a Londra, a Stoccolma, a Sidney: dove la difesa dell’ambiente non è nemica dello sviluppo, ma fa parte dello sviluppo stesso. Si riparta da qui: forse avremo alla fine qualche velodromo abbandonato in meno, e moderni quartieri, un nuovo skyline, metrò e periferie più civili in più.