A che servono gli intellettuali?
Caro Direttore, ieri nel tuo editoriale ti chiedevi che fine hanno fatto gli intellettuali italiani, auspicando (seppur con un punto interrogativo) un Mario Monti anche per la cultura. Io invece ti dico: ma cosa ce ne facciamo degli intellettuali? Facciamone a meno, non servono. Almeno quelli - intendo - che abbiamo avuto negli ultimi vent'anni: mai anticonformisti, mai scandalosi, mai anarchici, mai spiazzanti, mai illuminanti. Nella narrativa, nel cinema, nel teatro, tutto sembra ristagnare, galleggiare in un passatismo antico e moderno che ci fa sentire forti anche se non produciamo più nulla. Al cinema l'ultimo Oscar con risonanze mondiali ce l'ha regalato un attore di Prato, Roberto Benigni, da Vergaio - un comico che si portava appresso la sua dignitosa povertà delle origini, partito da Televacca ed arrivato ad Hollywood saltando sulle poltrone rosse. Al teatro il pieno lo fanno i giornalisti, Marco Travaglio per citarne uno. Nella narrativa siamo lì, fermi a trenta - quarant'anni fa, con un sacco di cronisti, attori e personaggi dello spettacolo che si mettono a scrivere romanzi dai dubbi risultati (e non mi riferisco alle vendite) per i posteri. E i prosatori, dove sono? E i poeti? Per emozionarci viviamo congelati nelle antologie, con gli occhi rivolti all'indietro, come in un'eterna nostalgia di ciò che siamo stati, «ciò che non siamo, ciò che non vogliamo». Montalianamente. Aveva visto giusto quel corsaro di Pier Paolo Pasolini quando, in un'intervista a Massimo Fini, per l'Europeo, nel 1974, si scagliò contro «l'inutile antifascismo da salotto» della cultura, perché - sottolineò - «la cultura è sempre stata legata al potere, punto e basta. In questo modo si spiega il conformismo di tanti intellettuali, un conformismo che stupisce e che addolora». Un conformismo che negli ultimi vent'anni si è adagiato nell'essere anti - Berlusconi. Il Cavaliere è stato scambiato per l'ombelico del potere quando, in realtà - pur avendo potere - era il centro della politica grazie al voto degli italiani in libere elezioni democratiche. Hanno scritto da Roma e da Parigi (come se ci fosse un nesso tra gli esuli per ideologia ed amore della libertà del periodo fascista e gli intellettuali italiani che hanno preferito Parigi tra la fine del Novecento e il XXI secolo). Da tutte le parti. La maggioranza intellettuale (che vivessero a Parigi, a Roma o ad Orte), si è incagliata sul Cavaliere. Le ossessioni, si sa, non producono granché - se ripetute all'infinito - se non una forma di unanimismo mascherato da resistenza. Un equivoco, insomma. E così è stato. Perché l'essere contro Berlusconi non si è unito alla narrazione (in letteratura, al cinema, in teatro) di un'Italia diversa ma altrettanto reale, ma è rimasta una sfida antropologica. Oggi, che le classifiche dei libri - in un paese dove si legge poco come l'Italia - sono sovente occupate dai libri di cucina o da romanzi scritti da non scrittori, ci ritroviamo a vivere uno dei momenti più drammatici dell'Europa (Italia compresa) senza che gli intellettuali ne dibattano come la gravità della situazione meriterebbe. Si sono attardati nel dagli al Berlusconi ed ora che lui si è defilato si ritrovano a scrivere di un'Italia che appartiene al secolo scorso. Qualcuno li svegli, fategli un telegramma: la Grecia è sull'orlo del baratro, mica vorrete dare la colpa al Cavaliere? Il fatto è che per trovare una lettura sapida ed anticonformista (lasciando stare il leghismo) dell'Europa mentre la si andava costruendo come ora ce la ritroviamo, bisogna ripescare Bettino Craxi, un altro che gli intellettuali non hanno mai amato. Nell'aprile del 1997, intervistato dal settimanale austriaco Profil, a proposito dei trattati di Maastricht e di ciò che avrebbero prodotto, disse «che l'Europa per l'Italia, nel migliore dei casi, sarebbe stata un limbo, nel peggiore un inferno» e che gli accordi andavano rinegoziati perché il nostro è un grande Paese. Il coro per l'Europa, in quei mesi, era assai alto: Berlusconi stava all'opposizione, Prodi e il centrosinistra al Governo e gli intellettuali amavano quel loro «migliore dei mondi possibili». Perché - come diceva Ennio Flaiano - «la cultura è un alibi».