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La tentazione di rifare gli italiani

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Provo a immaginare che cosa esattamente il nostro premier intenda dire quando afferma, come ha fatto nella ormai famosa intervistona al settimanale americano "Time", di voler cambiare il nostro modo di vivere, ma, francamente, non ci riesco. Posso solo sospettare che la confessione di questo proposito è soltanto un modo di ribadire il suo noto desiderio di favorire la nostra metamorfosi in tedeschi. Sono comunque sicuro che egli non ignora che il modo di vivere di un popolo rispecchia alcuni aspetti essenziali della sua natura, dei suoi gusti, del suo carattere, insomma della sua anima. Né sarebbe giusto fargli il torto di supporre che gli sfugga che la volontà di cambiare l'anima di un popolo, comportando un giudizio negativo su di essa, alle orecchie di quel popolo potrebbe anche suonare come, né più né meno, un educatissimo insulto. Ebbene: che cosa conviene pensare di un primo ministro che insulta i suoi concittadini? La parola agli esperti del ramo "stile del Risorgimento italiano". Si dà infatti il caso che un elemento essenziale di quello stile fu appunto la pratica, coltivata generosamente da tanti padri e padrini di quell'evento glorioso, dell'insulto a quel popolo che essi sognavano di far risorgere. Lunga è la serie di quelle ingiurie ma difficilmente se ne potrebbe trovare una più gagliarda della frase che il generale Cialdini, nel 1861, inviato al Sud da Cavour a combattere il brigantaggio, espresse prima di radere al suolo Casalduni e Pontelafondolfo. «Questa è Africa! Altro che Italia! I beduini, a riscontro di questi cafoni, sono latte e miele!». Ancora più toccante potrebbe sembrare tuttavia la frase con cui il marchese Massimo D'Azeglio espresse tutto lo schifo che gli faceva l'idea che la finalmente raggiunta unità, con l'annessione del Sud al Nord. comportasse anche, purtroppo, delle contiguità ripugnanti. "Unirsi ai Napoletani – disse quell'illuminato gentiluomo riferendosi ovviamente a tutti i meridionali – è come andare a letto con un lebbroso". Dove non si sa se ammirare maggiormente l'elegante schifiltosità del patrizio piemontese o il riluttante ardimento del patriota. Ma quella che oggi dovrebbe sembrarci la più oltraggiosa di tute le ingiurie risorgimentali è la molto più celebre sentenza per cui lo stesso D'Azeglio viene da sempre ammirato. Mi riferisco, ovviamente, alla facezia che dice: "Abbiamo fatto l'Italia, ora dobbiamo fare gli italiani". Alla quale è sorprendente che finora l'anima di nessuno dei tanti grandi italiani che, per dimostrare di essere appunto dei grandi italiani, non ebbero bisogno di aspettare la nascita dell'Italia Una, abbia avvertito il bisogno di rispondere dall'aldilà con una pernacchia cosmica. Poche grandi balle storiche sono infatti più ridicole dell'idea che a fare "una" l'Italia, e a consegnarla alla "modernità", sia stato appunto il Risorgimento. Giacché l'Italia, quantunque divisa sul piano statale, era già da almeno duemila anni "una" di lingua, arte, cultura, costumi e religione. E in tutti questi campi, fino allo stesso "risorgimento", era stata "magistra" a tutta l'Europa. Da Pietroburgo a Londra, da Madrid a Berlino, da Parigi a Vienna, la pittura, l'architettura, la scultura, la letteratura, la filosofia, la musica, la scienza e la stessa lingua italiana, governavano ovunque il pensiero e il sentimento. Ragion per cui occorre ammettere che il "risorgimento", se da un lato la promosse al rango di uno staterello sabaudo più esteso territorialmente della somma dei suoi regni precedenti, dall'altro la rese, nel suo insieme, spiritualmente assai meno creativa, influente e produttrice di geni assoluti dell'Italia preunitaria. Conclusione provvisoria ma non troppo: riuscirà mai il professor Mario Monti a riconoscere che nulla forse come il suo disprezzo dell'anima degli italiani così come sono fa di lui il più raffinato erede vivente dell'ethos risorgimentale?  

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