La Seconda Repubblica "mangia" più della Prima
Quando e sotto quali governi si è formata l’enorme mole di debito pubblico con cui siamo oggi chiamati a confrontarci? Chi, negli ultimi vent’anni, ha davvero ridotto o quanto meno frenato la crescita della spesa pubblica e chi invece l’ha lasciata crescere più del dovuto? Qual è stata la pressione fiscale esercitata dai diversi governi che si sono succeduti dal 1992 ad oggi? Gli esperti del centro studi tributari Eutekne.info hanno messo insieme un po’ di numeri che rispondono a ciascuna di queste domande. Il primo verdetto è che, in base ai calcoli, a macinare debito è stata più la seconda Repubblica che la Prima. Vediamo perché. Oggi il debito pubblico italiano si aggira intorno a 1.900 miliardi di euro. Alla fine del 2010, ultimo anno di contabilità pubblica di cui sono noti i dati semi-definitivi, aveva raggiunto 1.843 miliardi di euro. Quando si è formato questo debito? Quasi per intero nei "famigerati" anni della Prime Repubblica? I numeri non dicono questo, anzi: solo il 43,5% del debito complessivo si è creato prima del 28 giugno 1992, quando entra in carica il Primo Governo Amato con l'obiettivo di dare avvio a quella che avrebbe dovuto essere la stagione di risanamento dei conti pubblici. Ben il 56,5% del debito complessivo alla data del 31 dicembre 2010, dunque, si è formato e accumulato durante i governi che si sono succeduti negli anni della Seconda Repubblica. Il diverso giudizio tra questi due periodi non può certo dunque essere di tipo quantitativo, ma al massimo di tipo qualitativo. Negli anni della Prima Repubblica, il bilancio dello Stato chiudeva in deficit già prima di conteggiare la spesa per il pagamento degli interessi passivi sul debito accumulato sino all'anno precedente. Negli anni della Seconda, il bilancio dello Stato chiudeva quanto meno con un avanzo prima di conteggiare la spesa per il pagamento degli interessi passivi sul debito accumulato sino all'anno precedente. In un contesto in cui, anche negli anni della Seconda Repubblica, tutti i governi hanno dato il proprio contributo "passivo" all'accumulo di debito per colpa del debito già accumulato, ce n'è per lo meno qualcuno che ha ridotto la spesa primaria (ossia al netto degli interessi passivi) in termini reali (ossia al netto dell'inflazione)? Solo il Governo Ciampi (-0,54%) e il Primo Governo Berlusconi (-1,20%), preceduti e seguiti da altri due governi, il Primo Governo Amato e il Governo Dini, che sono riusciti quanto meno a lasciarla praticamente invariata. A partire dal 1996, con il Primo Governo Prodi, la spesa pubblica ha ricominciato a crescere in modo sostenuto (+6,01%), per poi attestarsi su livelli di crescita reale più contenuti, ma comunque significativi, durante i successivi Governo D'Alema e Secondo Governo Amato. La vera e propria esplosione incontrollata si registra però durante il quinquennio berlusconiano dal 2001 al 2006: +16,95%. Sul fronte della pressione fiscale media che si è registrata durante i governi della Seconda Repubblica, gli unici capaci di riportarla per lo meno al di sotto della soglia del 41% sono stati i Governi Berlusconi nel 1994 e nel quinquennio 2001–2006. Con i due Governi Prodi, invece, pressione fiscale stabilmente sopra il 42 per cento. Nel mezzo, tra il 41% e il 42%, gli altri. «Lo studio ha associato ai diversi periodi di governo le evidenze di contabilità pubblica influenzate in parte da scelte precedenti», precisa Enrico Zanetti, direttore di Eutekne.info. «Ciò significa che analizzando le singole legislature si deve anche considerare l'effetto di trascinamento degli esecutivi precedenti, perché le scelte di un governo producono effetti su quello successivo che ne subisce le scelte, soprattutto nei primi mesi. Più il periodo di governo è lungo più ne è fedele la rappresentazione della politica economica». Di certo, il confronto emerso dall'indagine Eutekne impone dunque alcune riflessioni e una premessa. Nel calcolare l'entità di debito pubblico che zavorra la crescita, spesso si ragiona in termini di rapporto fra debito e Prodotto Interno Lordo e non in termini di stock. Seguendo questa logica, invece, scopriamo che - almeno sulla carta e dal punto di vista contabile - l'Italia è già entrata nella Terza Repubblica. Quella dell'avanzo vero, non solo primario. La prima "era" quasi preistorica della vita politica di questo Paese è stata caratterizzata da una profonda incoscienza pubblica che chiudeva i bilanci in deficit senza interessi passivi. Poi, nel '92 sotto il governo Amato, siamo passati alla fase "due" dell'incoscienza pura durante la quale siamo stati incapaci di fare i conti con la realtà sino in fondo: ovvero, abbiamo smesso di spendere più di quello che entrava nelle casse statali e cominciato a chiudere con avanzi primari. Quindi con un'eccedenza delle entrate rispetto alle uscite, senza coprire però la spesa per interessi passivi. Ecco perché negli anni successivi i conti sono rimasti in rosso. È vero, quindi, che il debito nel corso degli anni ha generato nuovo debito ma ciò non può rappresentare un alibi per la responsabilità politica dei governi, di tutti i governi, che resta evidente. Non solo. Nel '94 l'esperienza, se pur breve, del governo Berlusconi aveva fatto registrare i numeri migliori della Seconda Repubblica perché era riuscita a ridurre la spesa pubblica e ad abbassare le tasse. Dal '96 in avanti, il risanamento è stato rallentato fino al 2001. Da allora al 2006, se sul fronte della pressione fiscale è stata mantenuta una politica di contenimento, sul fronte della spesa pubblica i cordoni della borsa si sono drammaticamente riallargati. Creando così i germi di quello squilibrio tra pubblico e privato nutriti anche dal governo di centrosinistra che ha riequilibrato un po' i conti solo aumentando la pressione fiscale ma senza ridurre la spesa. È lì che si è creato il vulnus: operando solo sulle entrate e non sulle uscite. Poi è arrivato il 2008 e la prima ondata della crisi che ha fatto sballare tutti gli indici. E il peggio deve ancora arrivare: a giugno gli italiani dovranno infatti cominciare a pagare l'Imu, la nuova tassa sulla casa che vale una decina di miliardi l'anno, e dal 1 ottobre scatteranno anche le nuove aliquote Iva che salgono di due punti percentuali (dal 21 al 23 e dal 10 al 12% per un totale di 4 miliardi quest'anno e di altri 15-16 negli anni successivi) e che andranno a coprire le riduzioni lineari delle agevolazioni fiscali. Sarà una gran botta, considerando che già oggi dobbiamo sopportare una pressione fiscale al 45,1 per cento. «Quello che è successo tra il 2001 e il 2006 – conclude Zanetti - dimostra quanto spazio ci sia oggi da colmare per riportare la spesa pubblica ai livelli dell'inizio anni duemila, ovviamente aggiornata con l'inflazione, e per avere i soldi necessari a far ripartire il motore dello sviluppo». Lo stesso centro studi aveva dimostrato, in un altro rapporto sulla correzione dei conti attuata dalle diverse manovre nel secondo semestre del 2011, che ci costa più la mancata crescita che l'esplosione del debito pubblico. Tre volte tanto. Per arrivare a questi risultati, gli esperti di Eutekne avevano preso il documento economico-finanziario del 13 aprile 2011, poi l'aggiornamento al 22 settembre dopo la manovra di Ferragosto del governo Berlusconi e infine quello del 6 dicembre post decreto Salva-Italia targato Monti. Il 73,62% della correzione dei conti complessiva è stata varata sotto la gestione del Cavaliere, mentre il restante 26,38% è riconducibile all'attuale Esecutivo. A quanto ammontano i sacrifici imposti agli italiani? Nel 2014, l'insieme complessivo delle manovre susseguitesi tra luglio e dicembre 2011 determina una correzione dei conti di ben 81,2 miliardi. Già nel 2012, comunque, l'ammontare complessivo delle manovre 2011 è di 48,3 miliardi e sale a 75,5 miliardi nel 2013. Secondo lo studio, la manovra complessiva per il 37,32% è costituita da tagli di spese (30,3 miliardi) e per il restante 62,68% da incrementi di entrate (quasi 51 miliardi). Per il 2012, ben il 79,54% della correzione dei conti è fondato sull'incremento e sull'introduzione di imposte (appena il 20,46% la parte basata su tagli di spesa). A regime, sul 2014, degli 81,2 miliardi di correzione complessiva dei conti solo 49,4 miliardi si tradurranno in azzeramento del deficit e sua sostituzione con un avanzo di bilancio. Detto in altre parole: per poter incidere sul disavanzo/avanzo di bilancio per quasi 50 miliardi, siamo stati costretti a varare manovre per complessivi 81,2 miliardi. Si sono infatti dovuti coprire i maggiori oneri derivanti dall'aumento del costo del debito pubblico, cresciuti di oltre 8 miliardi rispetto all'ultima stima precedente a luglio 2011. Ma anche i 22,8 miliardi di minori entrate derivanti dalla revisione al ribasso dei tassi di crescita del Pil. Ciò dimostra che la mancata crescita economica costa quasi il triplo della esplosione del costo del debito pubblico.