L’accademia e l’ottimismo
Secondo Sigmund Freud i primi sei anni di vita determinano l’esistenza di un uomo. In televisione basta molto meno per cogliere il carattere di un leader o di un personaggio, due, al massimo tre apparizioni dato che niente come il piccolo schermo mostra i pregi e smaschera i difetti. Per questo, dopo l’intervista che Lilli Gruber ha fatto venerdì sera a Mario Monti, nel suo programma Otto e mezzo (la7), la fenomenologia mediatica del Professore che sta cercando di traghettare l’Italia fuori dal pantano della crisi, è ormai definita. Un format - si passi il termine - agli antipodi della narrazione di Silvio Berlusconi, il premier che sedeva a Palazzo Chigi prima di lui. Lo spread tra i due stili è oceanico e nella constatazione di questa differenza non vi è un giudizio di valore ma un dato oggettivo. Mario Monti in tv predilige il faccia a faccia: nelle sue tre apparizioni dentro il genere talk show si è fatto intervistare da Bruno Vespa (da solo), da Fabio Fazio e da Lilli Gruber. Il Governo c’est moi, è questa la grande narrazione montiana, profondamente politica e non tecnica. L’uomo dell’emergenza in televisione trova lo spunto per rimproverare Fabio Fazio - quando gli domanda se l’Iva aumenterà - con un accademico "ma che caduta di stile!". O di precisare a Vespa, nel salotto equivicino al potere (e parliamo di narrazione tv, non di morale) - «non sono qui per fare un piacere a lei». Dalla Gruber Monti è invece meno burbero e più suadente, quasi dovesse affabulare le categorie scontentate dal suo provvedimento sulle liberalizzazioni, i tassisti e tutti gli altri. Dove Monti è assai più tecnico e meno politico sono invece le citazioni, sia che si tratti di una frase detta dal governatore della Banca centrale Usa, sia che si tratti di rammentare il suo trascorso da allievo di Tobin (l’ideatore della tassa che porta il suo nome). Per chi volesse farsi un’idea di come fosse il Monti televisivo nel secolo scorso, davvero interessante è la sua partecipazione - nel dicembre del 1984 - al programma Punto 7 di Arrigo Levi (su Canale 5) dove il prof. era tra gli ospiti chiamati ad intervistare l’allora presidente del Consiglio Bettino Craxi, star di quella puntata. Il 1984, dicevamo, gli anni Ottanta: basterebbero a descrivere la narrazione tv di Silvio Berlusconi e le differenze che lo separano da Monti. Il Cavaliere, con la rivoluzione delle sue tv commerciali, ha portato in Italia il sogno americano, di libertà, di consumi, di costume, con vent'anni e passa di ritardo. Sarebbe dovuto sbarcare - quel sogno - negli anni Sessanta quando Hollywood girava i suoi film sul Tevere ma fu bruscamente interrotto nel decennio successivo, il periodo cupo dei Settanta e del terrorismo. Le tv di Berlusconi lo resuscitarono, insieme all’ottimismo perduto, edonista e reaganiano, che resta il tratto saliente del Cavaliere politico e della sua comunicazione. Ciò che lo rende inadatto (in tv) a questo 2012 di crisi lunga e cupa. Dal messaggio agli italiani per la discesa in campo, 1994, alla crociera con la nave azzurra, passando per le ospitate in televisione nei talk (quando ancora ci andava), al contratto firmato nel salotto di Vespa, Silvio Berlusconi è il seduttore, il combattente, lo scanzonato. Comunque l’ottimista. Anziché citare Tobin preferisce le battute. Un linguaggio che usa anche nei vertici internazionali, con le corna nelle foto di gruppo, attardandosi al telefono, facendo cucù alla Merkel. Un mondo comunicativo che ha cominciato a perdere brillantezza quando il Cav. ha smesso di combattere nei talk per rifugiarsi nella formula del videomessaggio registrato. Troppo solitario e poco ottimista per essere berlusconiano.