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La riforma nelle urne e il Colle

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Se c'è un fatto che conferma, senza possibilità di smentita e senza ombra di dubbio, l'eclissi della politica e l'abdicazione dei partiti dalle loro funzioni istituzionali di portatori della «domanda politica» del Paese, questo è rappresentato dall'attivismo del capo dello Stato. Il presidente Napolitano, infatti, già all'indomani della pronuncia della Corte Costituzionale sulla ammissibilità dei referendum abrogativi della legge elettorale, si è impegnato, in prima persona, con una interpretazione innovativa ed estensiva dei compiti affidatigli dalla Costituzione, per stimolare un processo vero e proprio di riforme istituzionali. Ha scelto lo strumento utilizzato nella prassi per risolvere le crisi di governo, quello delle consultazioni, prima dei presidenti delle Camere poi dei segretari delle forze politiche rappresentate in Parlamento. E ha posto, a quanto sembra, sul tappeto diverse questioni, dal numero dei parlamentari alla differenziazione delle funzioni dei due rami del Parlamento fino alla riforma elettorale. Si tratta di questioni collegate tra loro ma che richiedono interventi legislativi diversi: mentre, per esempio, l'introduzione di una nuova legge elettorale, potrebbe essere realizzata attraverso le procedure ordinarie di approvazione delle leggi, la riduzione del numero dei parlamentari avrebbe bisogno di un intervento di tipo costituzionale e, quindi, di un complesso iter sulla base dell'art. 138 della Costituzione. È bene rammentarlo, questo punto, perché su di esso si misura, realisticamente, il livello di fattibilità dei propositi riformatori soprattutto in una fase avanzata della legislatura. In altre parole, la buona volontà del Capo dello Stato - almeno per quel che riguarda l'ipotesi della riduzione dei parlamentari - appare destinata a scontrarsi, oltre che con la comprensibile difesa corporativa della «casta», con i paletti posti dall'obbligo del voto a maggioranza assoluta e della doppia approvazione nelle singole Camere ad almeno tre mesi di distanza. Se il presidente della Repubblica riuscisse davvero nel suo proposito di costruire il consenso delle forze politiche su tale punto e in questo scorcio di legislatura farebbe davvero un miracolo dimostrando fra l'altro che il suo «presidenzialismo strisciante» alla fin fine paga. Ma ai miracoli è difficile credere, almeno fino a quando non si verificano. Ben diversa è, almeno in via teorica, la prospettiva di modificare la legge elettorale vigente. A parole, anzi, sembrerebbe che tutti siano d'accordo sulla possibile abolizione del Porcellum o su una sua profonda revisione. Ma è davvero così? E, anche se fosse così, ci sarebbero davvero quei margini di consenso in grado di garantire l'adozione di un meccanismo realmente condiviso? A ben vedere non sembra. E vediamo perché. In primo luogo c'è il problema dell'eterna contrapposizione, teorica, fra i sostenitori del principio maggioritario e quelli del proporzionale. È una contrapposizione fondamentale. I primi sono convinti che il meccanismo elettorale debba garantire la governabilità assicurando a un partito, ovvero a una coalizione predefinita di partiti, la maggioranza dei seggi in Parlamento, anche a scapito della rappresentanza di tutte le sfumature politiche. I secondi, al contrario, privilegiano la logica opposta: il requisito irrinunciabile della democrazia è la possibilità per ogni opinione politica di essere rappresentata anche a costo della frantumazione delle forze politiche e della difficoltà di creare governi omogenei e duraturi. In parole povere si può dire che i sistemi maggioritari mettono gli elettori in grado di scegliere fra due ipotesi alternative di governo, mentre i sistemi proporzionali si limitano a fornire una indicazione del «peso» in termini elettorali delle forze politiche e demandano al momento post-elettorale, sulla base dei risultati, la formazione della coalizione di governo. L'Italia della prima repubblica ha sperimentato il proporzionalismo (quasi) puro e ne ha assaporato gli effetti: coalizioni di governo instabili, partitocrazia, correntocrazia e, soprattutto, impossibilità di alternanza nei ruoli di governo e opposizione. La seconda repubblica ha, invece, conosciuto un simulacro o surrogato di maggioritario (o un proporzionale corretto in senso maggioritario) che le ha consentito, almeno, di sapere già in fase di campagna elettorale, il nome del premier e di far conoscenza sia con il bipolarismo sia con l'alternanza. La partita si gioca sempre attorno alle differenze tra sostenitori del maggioritario e del proporzionale. E, semmai, sui tentativi di conciliare gli uni con gli altri, immettendo in un sistema dosi di proporzionalismo o facendo iniezioni di maggioritario attraverso i premi di maggioranza. Ed è qui, in questi tentativi, che le posizioni di principio si confrontano e si scontrano con la realtà e con gli interessi contingenti. Il Pdl non vuole rinunciare all'impianto bipolare; il Pd è incerto fra nostalgie proporzionaliste e prospettiva suggerita dai sondaggi di stravincere con il premio di maggioranza; il Terzo Polo è disposto a trattare, su tutto e con tutti, purché una sostanziosa immissione di proporzionalismo gli consenta di risultare determinante. Insomma, confusione totale sotto il cielo della politica. Discussioni a non finire e ricerca di modelli. Ci si accapiglia per decidere se fare la nuova legge elettorale alla francese, alla spagnola, alla tedesca, all'ungherese, all'inglese... Non lasciamoci illudere, Son parole: l'accordo è difficile, forse impossibile. La nuova legge elettorale non si farà. O, se si farà, grazie al pungolo presidenziale, sarà all'amatriciana.  

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