Casini vuol fare centro a spese di Bersani e del Pd
Dopo la rimozione dei referendum, non ammessi questa volta dalla Corte Costituzionale tra le rumorose proteste ed anche gli insulti di Antonio Di Pietro e amici, solo in apparenza Pier Ferdinando Casini può continuare a fare affidamento sul Pd di Pier Luigi Bersani per una riforma elettorale a misura dei suoi interessi politici. Che sia capace, cioè, sul modello tedesco o simile, di pescare meglio nel bacino del centrodestra con l’eliminazione del premio di maggioranza. «Se il Pdl pensa di poter fare con noi un accordo senza il terzo polo significa che non vuole cambiare il Porcellum. La nostra risposta è no», dice Enrico Letta, il vice di Bersani, in una intervista rilasciata a Repubblica poche ore prima dei lavori dell’Assemblea Nazionale, apertisi ieri. Ma sotto la superficie di questo annuncio, e tuttavia ben visibili agli occhi di chi vuole scrutare l’acqua e non allontanare invece lo sguardo, se ne trovano altri di segno molto diverso, persino opposto. «L’assetto bipolare è nel nostro atto di nascita, come in quello del Pdl», dice anche il vice di Bersani. Che sa bene quanto questo «assetto», creatosi con le precedenti riforme elettorali, non è invece congeniale al terzo polo, anche se Casini cerca di sfuggire al significato delle parole e dei numeri ponendosi l’obbiettivo di diventare addirittura il primo polo, e lasciando così agli altri due la contesa per il secondo polo. Non a caso, del resto, il Pd si oppose subito e chiaramente nei mesi scorsi all’unico dei referendum allora in gestazione che fosse capace di minare davvero il bipolarismo: quello che tendeva semplicemente ad abrogare il premio di maggioranza. E che avrebbe avuto la possibilità di superare l’esame di ammissione alla Corte Costituzionale, se vi fosse arrivato con il prescritto numero di firme e la convalida della Cassazione. Enrico Letta non si limita tuttavia a difendere il carattere bipolare del sistema politico. Egli spiega anche il modo, confermato poi da Bersani all’Assemblea Nazionale, come il suo partito intenda partecipare alle prossime elezioni, ordinarie o anticipate che siano, con le norme attuali, a liste cioè bloccate: riducendone la loro obbiettiva impopolarità con il preventivo ricorso alle primarie. Che in effetti, consentendo ai militanti e ai simpatizzanti di esprimere le loro preferenze e di determinare così l’ordine d’iscrizione dei candidati nelle liste, allontanerebbe dagli eletti il carattere oggi odioso di parlamentari più nominati dai vertici dei loro partiti che eletti liberamente dai cittadini, come si faceva una volta con i voti di preferenza o, sia pure in misura minore, con il collegio uninominale. Che consente ad ogni elettore di vedere ben stampato sulla scheda il nome del candidato di ogni partito nel posto in cui va a votare, per cui può ben rifiutare il proprio voto, o dirottarlo altrove, se la persona propostagli dal suo partito gli risulta proprio indigesta. Vi sarebbe quindi il modo, per quanto il presidente della Repubblica sia ieri tornato a sollecitare con i presidenti delle Camere un pacchetto di riforme comprensivo della materia elettorale, di rimediare senza ulteriori interventi normativi alla maggiore delle "porcate" ammesse dallo stesso autore della legge in vigore dal 2006, l’allora ministro leghista delle riforme Roberto Calderoli. Che si sentì costretto dai negoziati politici con gli alleati di governo, ma anche con il Quirinale di Carlo Azeglio Ciampi, a inserire nel provvedimento alcuni elementi da lui non condivisi. Fra i quali, in verità, egli non intendeva le liste bloccate, unanimemente condivise dall’allora maggioranza di centrodestra, comprensiva dell’Udc di Casini e dell’Alleanza Nazionale di Gianfranco Fini, e in fondo tollerate, al di là delle critiche formali, da una sinistra consapevole dei vantaggi che poteva trarne anch’essa. Ancora ieri sul suo giornale Il Riformista l’insospettabile Emanuele Macaluso, da tempo libero da vincoli di partito e legato ormai solo per ricordi ed amicizia a Giorgio Napolitano, rinfacciava all’allora segretario Piero Fassino e agli altri dirigenti dei Ds-ex Pci «le porcate che fecero» nelle elezioni politiche del 2006 nominando a parlamentari «amici e parenti». Non furono quindi solo il Cavaliere e i suoi alleati di allora a nominare i loro deputati e senatori. E a farlo ancora nelle successive elezioni politiche anticipate del 2008. Macaluso, in verità, ieri si doleva anche dei danni che la legge attuale potrebbe procurare a Casini. Il quale «piaccia o non piaccia, ha assunto - scriveva l'ex dirigente comunista - un ruolo politico ed elettorale rilevante». Ed avrebbe ora il diritto di non vedere penalizzate le sue ambizioni da una legge che gli è diventata troppo stretta. E che rischia di «sopprimere sul nascere il Centro», quando invece, sempre secondo il buon Macaluso, «non si possono deformare e cancellare per decreto i processi politici». Ma qui non c’è nessun decreto o nuova legge contro cui mobilitarsi. C’è solo una legge che rischia di non essere modificata per mancanza di una maggioranza capace di farlo, ma che può essere più correttamente e decentemente applicata con l’accorgimento indicato dal segretario e dal vice segretario del Pd. E che anche il Pdl farebbe bene, a questo punto, ad adottare. Va poi detto che Casini, il cui ruolo è cresciuto più nei palazzi che nelle urne, almeno dove si è votato dopo la rottura tra Gianfranco Fini e Silvio Belusconi, si è mosso negli ultimi tempi con un po’ troppa disinvoltura. Che ha allarmato entrambi i partiti maggiormente minacciati dai suoi progetti di espansione, il Pdl e il Pd, portati legittimamente per la natura delle cose, cioè per la loro sopravvivenza, a difendersi piuttosto che a offrirgli altre occasioni di gioco, lasciandogli persino la possibilità di segnare reti con le gambe di qualcuno dei ministri formalmente tecnici del governo di Mario Monti. La cui salute politica peraltro dipende da quella dei partiti che lo sostengono e dalla sua volontà e capacità di restare neutrale di fronte a quelle che potremmo definire le loro sofferenze, o inquietudini. Non deve essere, per esempio, piaciuto nelle ultime ore né al Pdl di Angelino Alfano, pur aperto sin dalla sua nomina a segretario a un nuovo rapporto con Casini, né al Pd di Bersani ed Enrico Letta il progetto attribuito allo stesso Casini, e al terzo polo, magari puntando, a torto o a ragione, su aiuti e aiutini del Vaticano o dintorni, di candidare a Roma l’anno prossimo l’attuale ministro Andrea Riccardi per contendere il Campidoglio, rispettivamente, a Gianni Alemanno e a Nicola Zingaretti. Ogni corda, si sa, si spezza a tirarla troppo, anche se lo si fa tra odori d’incenso, telefonate o biglietti d’auguri di varia natura, incontri più o meno conviviali e gioiose pacche sulle spalle.