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Referendum bocciati, Tonino insulta il Colle

Antonio Di Pietro

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A cambiare la legge elettorale dovrà essere il Parlamento. La Corte Costituzionale ha bocciato i quesiti che intendevano abrogare il Porcellum. Due no inequivocabili, che sarebbero stati decisi a stragrande maggioranza. I quindici giudici che siedono a Palazzo della Consulta non sarebbero mai stati veramente spaccati sulla questione ammissibilità. Certo, il dibattito c'è stato. Sul tavolo c'erano un milione e 200mila firme, i magistrati non hanno lasciato niente di intentato. Alla fine, però, avrebbe prevalso la tesi dell'impossibilità di lasciare un vuoto normativo in materia elettorale. Bocciato, quindi, sia il quesito che chiedeva l'abrogazione totale della legge Calderoli sia il secondo che puntava ad una abrogazione in parti, ripristinando di fatto il Mattarellum. Le ipotesi della «reviviscenza», o della «riespansione» del Mattarellum, non hanno convinto la Corte. Tutto da rifare, insomma. Tolta dal tavolo la pistola che avrebbe costretto i leader politici a cercare un'intesa sulla riforma, la strada per una nuova legge sembra adesso tutta in salita, come conferma il ritrovato amore di Berlusconi e Bossi per il Porcellum. Nonostante il no fosse stato ampiamente previsto alla vigilia, la delusione del comitato referendario è cocente: «Rispettiamo la sentenza ma la battaglia per il maggioritario va avanti», commentano sia il presidente Andrea Morrone sia Arturo Parisi. Non ha invece lo stesso fair play verso il verdetto Antonio Di Pietro: «L'Italia si sta avviando lentamente verso una rischiosa deriva antidemocratica», è l'anatema del leader Idv. L'ex pm - quello che «le sentenze vanno rispettate» e che «guai ad attaccare la magistratura» - non si ferma qui e bolla la decisione della Consulta come «non giuridica ma politica». Di più. Si tratta di una sentenza che intende «far piacere al Capo dello Stato e alla maggioranza trasversale e inciucista del Parlamento». Giorgio Napolitano, però, non intende farsi trascinare dalle polemiche e la replica arriva a stretto giro di posta: «Volgari insinuazioni», segno «solo di una scorrettezza istituzionale», recita la nota del Quirinale, da sempre in pressing sui partiti a sostegno delle riforme istituzionali. Ma se lo scontro tra di Pietro e il Colle è la polemica di giornata - non la prima tra il leader Idv e il Quirinale - la decisione della Consulta è destinata ad allungare ombre sulla riforma della legge elettorale, sulla quale i partiti cominciavano a mettere la testa per evitare gli effetti, non graditi da tutti, del ritorno al Mattarellum se il referendum fosse stato approvato a giugno. Le intenzioni ci sono, ma le difficoltà non mancano. Gianfranco Fini e Renato Schifani, ne appaiono consapevoli. «Ora tocca alle forze politiche - spronano in una nota dopo un incontro in serata al Quirinale - e alle Camere assumere rapidamente iniziative di confronto concreto sui temi da affrontare e sulle soluzioni da concertare». Intanto, la commissione Affari costituzionali del Senato martedì 17 gennaio affronterà, in Ufficio di Presidenza, il tema della legge elettorale, già all'ordine del giorno dei proprio lavori. «Si rende, infatti necessario - afferma in proposito Carlo Vizzini, presidente della Commissione - valutare subito gli effetti della decisione negativa della Consulta, in modo che il Parlamento possa decidere in tempi brevi come procedere in una materia così importante». Determinato a prendere in mano il pallino della riforma è il segretario del Pd Pier Luigi Bersani, che offre alla discussione la proposta di legge del Pd, fondata su un mix di collegi maggioritari intorno al 70 per cento e di seggi proporzionali. «Siamo impegnatissimi a cambiare il Porcellum», sostiene il segretario Pd e sulla stessa lunghezza appare il leader Udc Pier Ferdinando Casini, che però tifa per il modello proporzionale alla tedesca. Non sembrano, invece, avere alcuna ansia di riforma Silvio Berlusconi e con lui Umberto Bossi, tornati "alleati" anche sul voto per Cosentino. Il porcellum per il Cavaliere «è una buona legge, va solo migliorata» mentre per il Senatur, in rotta con Roberto Maroni anche sulla riforma elettorale, «la migliore legge elettorale è quella che c'è perché presto si va al voto».

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