Il Prof non ceda alle illusioni da piazzista
A noi che stimiamo Mario Monti e che fin dall'inizio giudichiamo il suo governo l'ultima spiaggia per il Paese, fa effetto sentirgli promettere dopo il decreto sulle liberalizzazioni una crescita del Pil dell'11 per cento, dei consumi dell'8 e degli stipendi del 12. Si tratta di cifre frutto di studi autorevoli, in particolare della Banca d'Italia: ma che potrebbero materializzarsi nell'arco di 30 anni e dare i primi effetti strutturali tra dieci. Se Monti, facendo forza al suo prestigio, si improvvisa in qualche modo piazzista di se stesso e dei suoi tecnici, qualcosa non va. Speculari in peggio alle promesse del capo del governo ci sono le minacce del sindacato dei medici di famiglia, che contro l'obbligo di prescrivere accanto ai farmaci di marca l'equivalente non griffato agitano la ricetta «non sostituibile»: cioè l'obbligo del prodotto che fa più comodo alle case farmaceutiche. Si alzano veli per nulla rassicuranti sui rapporti tra i medici di base, pagati di tasca nostra, e quelle che negli Usa chiamano «Big pharma», le multinazionali dei medicinali. Tra questi due estremi ci sono i partiti, costretti da un sistema di rappresentanza balordo che impedisce alle lobby ed a ciò che pigramente definiamo corporazioni (quasi non fossero da secoli una componente della società civile) di manifestarsi per quello che sono, in Parlamento innanzi tutto, e difendere i loro interessi senza la mediazione interessata della sinistra o della destra. Così neppure il «Si poteva fare di più» di Bersani, né la difesa dei tassisti o dell'Eni da parte del Cavaliere e dintorni, alla fine risultano convincenti. È un gioco al ribasso dal quale si esce solo dando alle lobby piena visibilità, e restituendo alla politica il ruolo che ha in tutte le democrazie, a cominciare dall'assunzione di responsabilità dirette nel governo (siamo l'unico paese Ocse sotto commissario), per rafforzare e non indebolire Mario Monti. Soprattutto sullo scacchiere europeo, che resta quello decisivo. Diversamente i tecnici dovranno continuare a sfornare provvedimenti a 360 gradi studiati per scontentare tutti e nessuno, senza però una vera e affilata strategia. Le liberalizzazioni non fanno eccezione. Con malizia fin troppo scoperta il governo ha scelto due bersagli facili – tassisti e farmacisti – nominandoli simboli della mancata crescita e della «tassa occulta» che grava sui bilanci familiari. Sapendo che le due categorie sono più o meno vicine al centrodestra, ha poi preso di mira le riserve di caccia più affini alla sinistra: ordini professionali e accademici, banche e assicurazioni; senza peraltro riservare a tutti la stessa potenza di fuoco. Ora sarà pur vero che i tassisti sono «brutti sporchi e cattivi», ma davvero si pensa che abbiano tanta rilevanza nel bilancio di una famiglia media? E l'obbligo di preventivo per architetti e commercialisti, ed ancora di più la richiesta alle assicurazioni e alle banche di presentare anche le offerte della concorrenza, non vi sembrano misure a dir poco aggirabili? Già oggi internet permette di documentarsi prima su mutui e tassi d'interesse: il problema erano e rimangono i costi dei conti correnti e dei depositi, che come appena documentato da Bankitalia sono lievitati anche del 100 per cento. Spesso grazie alle tasse appena decise dai governi "liberalizzatori". Monti compreso. Andiamo sul concreto con due esempi: la benzina e le bollette. Ad un mese dall'ennesimo aumento di imposte e accise, si prevede che i distributori possano offrire, per il 50 per cento di quanto erogato, anche carburanti di marche diverse. Ma quanti sono gli impianti in mano a proprietari, e non a gestori, in grado di praticare questa (mezza) libera scelta? Cinquecento su 25 mila. E anche quella sparuta minoranza, che alternativa può offrire se tutte le marche hanno i prezzi record europei, e questo grazie appunto ai vari governi? Tra l'altro proprio i 25 mila distributori italiani, i più numerosi d'Europa, dimostrano che non serve a nulla aumentare i punti vendita se il costo del prodotto è salato all'origine per colpa dello Stato. Veniamo all'energia. Anche qui abbiamo i prezzi più cari d'Europa per famiglie e imprese. Si promette di ridurli separando la Snam, che ha la rete di distribuzione del gas, dall'Eni, che il gas lo produce o lo importa. Il modello è quello della Terna, la rete elettrica separata a suo tempo dall'Enel. Il principio è giusto di per sé, ma non serve a nulla se sul tubo libero non passa poi una concorrenza vera. Basta che prendiate, se siete a Roma, una bolletta dell'Acea: sul totale al netto delle imposte vedrete che oltre la metà è costituito da "servizi di rete": è il pedaggio pagato alla Terna. Poi vi sono le imposte e quindi l'Iva che va a tassare altre tasse. Alla fine il prodotto elettrico vero incide per poco più di un terzo sulla bolletta finale. È su questo che probabilmente vi arriveranno proposte di ribassi: quanto pensate di poter risparmiare con questa struttura di servizio? È il modello che si applicherà al gas, separando la rete e istituendo un'authority unica che dovrebbe, non si capisce perché, occuparsi anche dei tassisti (dopo consultazione con i Comuni). Il tutto con i tempi debiti. Verrebbe sempre da citare Ennio Flajano, che diceva che in Italia la via più diretta tra due punti è l'arabesco. Il punto vero però è un altro: nessuna separazione tra rete e produttore avrà mai senso se non si apre a un mercato vero, e non esiste vero mercato senza guerra sui prezzi. Per ottenerla è però necessario mettere in competizione i player italiani – Enel, Eni, ex municipalizzate – con quelli stranieri. Lo si è fatto nella telefonia, dove infatti i prezzi si sono ridotti, ma non per elettricità, gas, carburante. I motivi li sappiamo. Paghiamo il pedaggio di non aver voluto il nucleare, con la beffa ulteriore di risarcire investimenti mai fatti; inoltre manteniamo sul mercato una serie di municipalizzate la cui maggioranza seguita ad essere, non si sa perché, nelle mani di enti locali ultra indebitati (tra i quali Roma). Il risultato è un doppio ricarico sui cittadini: in termini di servizi e di addizionali Irpef e Irap. Se le aziende nazionali, che dopo la conquista di Edison da parte dei francesi, sono quasi tutte in mano pubblica e tutte tenute a pagare gabelle allo Stato, ai Comuni, per i vari referendum (acqua compresa), è evidente che i concorrenti stranieri che vengono in Italia non possono che adeguarsi. C'è un'alternativa? Certo che c'è: si chiama privatizzazione. In questo caso sì che la divisione tra rete e produttore avrebbe senso, con la prima in mano pubblica per garantire la concorrenza e la strategicità del servizio, e poi libera competizione fra privati. Non si vuole o non si può fare anche per tutelare "campioni nazionali" come Eni ed Enel? Benissimo, ma allora si rendano questi campioni davvero forti rispetto, per esempio, ai francesi, anche quelli statali ma con ben altra forza in termini di libertà di produzione (per l'elettricità) e di estrazione (per petrolio e gas). Al contrario, si legano le mani all'Enel sul nucleare, mentre si impedisce all'Eni di estrarre gas e petrolio dove c'è. In compenso si finanziano a costi super parchi eolici e solari, infilando anche questi costi prima nelle bollette dei cittadini, poi nelle tasse sotto forma di sgravi ripagati da altri contribuenti. Infine si mantengono aziende di servizi locali spesso inefficienti, in ossequio a quel capitalismo municipale caro alla sinistra e alla Lega. Ci scusiamo per questo excursus, che però riguarda la vita quotidiana di tutti noi. Monti ha promesso di cambiare le cose non con l'apertura del mercato e le privatizzazioni: neppure dove sarebbe logico come per poste e ferrovie. Anzi, ha esplicitamente escluso le privatizzazioni dall'orizzonte di questo governo. Il premier intende agire attraverso una super-regolamentazione in ogni settore: nuove authority, previsione per legge di quanti notai, quante farmacie, quante pompe di carburante debbano esserci. È per alcuni un paternalismo di Stato; ma fa parte della sua cultura e del suo background, che privilegia su tutto le regole. E può anche darsi che abbia ragione, benché proprio l'eccesso di regole stia uccidendo l'Europa, mentre i Paesi anglosassoni e gli emergenti scommettono sul contrario. Del resto non si può chiedere ad un governo senza mandato popolare quale modello sociale ed economico impiantare in Italia: se affidato all'iniziativa libera e privata, al capitalismo di Stato, o ad una via di mezzo affidata al grande regolatore pubblico. Per questo, e torniamo all'inizio, ci vuole una scelta strategica, che non può che essere della politica. Ma a sua volta la politica ha il dovere (che non ha mai sentito) di parlare chiaro; e per esempio – dai referendum all'Europa – di presentare agli elettori un conto dei costi e dei benefici, anziché ideologia e propaganda. Nel frattempo, però, non costruiamo al posto di quelli vecchi un nuovo totem, anche se si chiama liberalizzazioni. Per ora di libero, nel senso delle nostre scelte e dei nostri portafogli, vediamo ben poco.