Cassintegriamo i nostri politici
Nel 1960, alla vigilia del primo centenario dell'unità d'Italia, apparve un volume dal titolo Il Re costava meno. Lo aveva scritto un giornalista e saggista di origine piemontese, Mario Viana, che, nazionalista della prima ora e antifascista da sempre, si era spostato a Roma dal volontario esilio nella tenuta romagnola, per riprendere nella nuova Italia democratica e repubblicana l'attività politico-giornalistica. Quel lavoro ottenne, comprensibilmente, largo successo tra i monarchici e fece rumore. Oggi, avrebbe un pubblico assai più vasto perché i costi della politica - non solo quelli del Quirinale - sono cresciuti in misura esponenziale. E gli italiani, monarchici o non monarchici, ne hanno, ormai, diciamolo pure, le scatole piene. E sì che, alle origini della repubblica, un bell'esempio di parsimonia lo aveva dato Enrico De Nicola. Il quale, com'è noto, di auto blu, per uso personale non voleva saperne al punto che, dovendosi recare nella città natale per votare, fece una delle sue scenatacce al povero autista che aveva predisposto un buono di rifornimento della benzina e pretese di pagare di tasca sua il pieno di carburante. Per De Nicola la distinzione tra privato e pubblico era sacra. Si faceva addebitare persino la spesa dei francobolli per la corrispondeva personale per evitare che le proprie lettere venissero inviate in franchigia, quindi a spese dello Stato. Erano altri tempi. E De Nicola era uomo d'altri tempi. Era convinto che essere eletto, pur come semplice parlamentare, o essere chiamato a ricoprire una carica pubblica, come quella di capo provvisorio dello Stato, implicasse l'esercizio della modestia. E, soprattutto, della parsimonia. Un "uomo pubblico" doveva essere, per lui, il "rappresentante" del paese e adempiere ai suoi compiti non per professione o vocazione, ma per missione e per il bene comune. Con il tempo tutto è cambiato. I costi della politica sono diventati abnormi. E i parlamentari, tutti "uomini pubblici", si sono convinti di non dover essere affatto - malgrado quanto recita l'art. 67 della Costituzione e cioè che "ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione" - considerati i rappresentanti del paese. Ed è tanto vero, questo, che quando il paese si pronuncia in maniera chiara e inequivocabile su qualche cosa che non piace loro o ne sfiora li interessi, essi corrono immediatamente ai ripari dimenticando di dover rappresentare, almeno secondo il dettato costituzionale, la nazione. Se gli italiani, per esempio, aboliscono il finanziamento pubblico dei partiti, si precipitano a reinserirlo (magari rimpinguato) sotto forma di rimborso per le spese elettorali. Se gli italiani, ancora, si pronunciano per la soppressione del ministero dell'Agricoltura, ecco che si affrettano a mettere in piedi un ministero delle Politiche Agricole. E si potrebbe continuare a lungo. Ma, come direbbero i nostri padri latini, de hoc est satis. La verità è che i parlamentari, nel nostro paese, sono ormai avvezzi a considerarsi non già "rappresentanti della Nazione", ma piuttosto (d'altro canto è difficile dar loro torto se è vero che "l'Italia è una repubblica fondata sul lavoro") lavoratori. Anzi lavoratori statali. A tutti gli effetti e con tutti i diritti (molti) e i doveri (pochi) degli impiegati dello stato. Sono travet di alto grado, insomma. E hanno diritto a ferie pagate, aumenti periodici di stipendio, assistenza sanitaria, qualche benefit e via dicendo. E, per arrotondare, a un po' di assenteismo e di doppio lavoro. Ma se così è - e pare proprio che sia così - allora perché non considerarli davvero, i nostri parlamentari, dei lavoratori? E, perché, allora, in un momento di grave crisi come l'attuale, non fare ricorso, anche per la loro categoria, al glorioso istituto della cassa integrazione, che li esenterebbe dall'obbligo di fornire una prestazione lavorativa garantendo loro pur sempre un apprezzabile emolumento? Naturalmente, occorrerebbe qualche attenzione. Sarebbe necessario, per esempio, scegliere i cassintegrati in modo tale da non alterare la fisionomia politica del Parlamento, rispettando le percentuali dei gruppi parlamentari. E ciò, anche se la naturale italica tendenza al trasformismo e al "girellismo" renderebbe difficile l'impresa. Ma tant'è. Difficoltà a parte, il ricorso, col principio della rotazione, alla cassa integrazione abbasserebbe il costo della politica. Senza nemmeno ridurre gli emolumenti dei parlamentari. E se qualcuno si preoccupasse dello svuotamento (parziale) delle aule parlamentari sbaglierebbe: in tempi di governi tecnici o del presidente, il Parlamento ha davvero tanta importanza e tanto lavoro? Intendiamoci. Questa proposta semiseria e modesta è uno scherzo. Ma ci rifletta l'austero professor MarioMonti. È l'unico che, a capo di un "governo di unità nazionale" frutto di emergenza ed eclissi della politica, può far digerire misure impopolari. O, addirittura, popolari.