Caro Maroni, lei ha torto e molte ragioni
Se quella in corso nella Lega è una guerra di successione, come tutto lascia supporre, le ragioni stanno certamente dalla parte più di Roberto Maroni che di Umberto Bossi. E vi stanno, paradossalmente, per responsabilità dello stesso Bossi, che ha fatto crescere Maroni più di tutti gli altri leghisti della prima ora, conoscendone evidentemente le qualità. Egli è stato di sicuro il migliore dei ministri leghisti succedutisi dal 1994, l'anno dell'esordio del Carroccio al governo con Silvio Berlusconi, e tra i migliori dei ministri dell'Interno avvicendatisi nella storia della Repubblica. Con le prove che ha dato, con i suoi 57 anni ancora da compiere e con le simpatie che riscuote fra i militanti, dai quali sarebbe inutile cercare di allontanarlo con editti odiosi, giustamente revocati o smentiti, Maroni ha tutti i titoli quindi per aspirare alla successione politica a Bossi. Che con i 70 anni compiuti, ma soprattutto con la salute che si ritrova non può certo pensare di poter rinviare chissà ancora di quanto un passaggio di mano. Né può decentemente accreditare progetti dinastici a favore di suo figlio Renzo, da lui stesso impietosamente declassato sulle acque del Po da delfino a trota. Maroni tuttavia rischia di sbagliare troppe battaglie nella guerra di successione attribuitagli, a torto o a ragione, all'interno del suo movimento. Intendo per battaglie le occasioni che sceglie per misurarsi con Bossi e il suo cerchio più o meno magico. O le questioni su cui di volta in volta decide di distinguersi o anche di ricomporre divergenze o contrasti. Ritengo un errore, per esempio, quello commesso da Maroni negli ultimi mesi del precedente governo, quando condivise, a mio avviso per ragioni più tattiche che di merito, preferendo rinviare ad altro momento e ad altro tema l'occasione di uno scontro, il veto opposto da Bossi ad un intervento sulle pensioni anticipate d'anzianità. Che pure, oltre a rientrare nel pacchetto delle misure richieste dalla Banca Centrale Europea per poter sostenere i titoli del debito pubblico italiano nei mercati in preda alla paura e alla speculazione, era coerente con le decisioni prese dallo stesso Maroni come ministro del Lavoro nel penultimo governo di Berlusconi. E costosamente cambiate poi dal governo di Romano Prodi. Un errore, nell'estate scorsa, fu anche quello di Maroni di distinguersi invece da Bossi nel passaggio parlamentare dell'autorizzazione all'arresto del deputato del Pdl Alfonso Papa. Che fu concessa grazie ai deputati leghisti più vicini all'allora ministro dell'Interno. L'uso che di quel voto hanno poi fatto i magistrati, trattenendo per circa sei inutili mesi il parlamentare in carcere o agli arresti domiciliari in pendenza di un processo disposto con rito immediato, avrebbe dovuto aprire gli occhi a Maroni e ai suoi. I quali invece hanno appena sostenuto, questa volta senza riuscirvi, ma spaccando rovinosamente il gruppo della Camera e il partito, un'altra richiesta di arresto cosiddetto cautelare, cioè prima ancora del processo: ai danni stavolta di Nicola Cosentino, pure lui deputato del Pdl, allora e adesso non più coordinatore campano del partito. Chiedo a questo punto non tanto al deputato o all'ex ministro dell'Interno quanto all'avvocato Maroni perché mai gli piaccia tanto l'arresto cautelare o preventivo. Che, essendo consentito dalla legge non come anticipo di pena, che potrebbe non essere mai comminata da una sentenza definitiva di condanna, ma solo come misura eccezionale per impedire all'imputato di fuggire, di inquinare le prove e di ripetere il tipo di reato contestatogli, ha senso solo se ordinato ed eseguito a sorpresa dell'interessato. Ebbene, la sorpresa per un parlamentare non può semplicemente esistere perché la Costituzione impone alla magistratura ordinaria di chiedere l'autorizzazione alla Camera di appartenenza. Che ne discute e decide in un arco di tempo necessariamente più che sufficiente per il parlamentare imputato, se ne avesse la voglia e l'interesse, a fuggire o a inquinare le prove. Un magistrato di buon senso, che non volesse cimentarsi in arbitrarie prove di forza con il Parlamento o, più in generale, con la politica, o non volesse più semplicemente e banalmente guadagnarsi le prime pagine dei giornali, dovrebbe ormai fare a meno responsabilmente dell'arresto preventivo di un parlamentare. Ciò specie dopo che una modifica alla Costituzione nel 1993 ha sollevato gli uffici giudiziari dall'obbligo di chiedere l'autorizzazione a indagarlo, a rinviarlo a giudizio e quindi a giudicarlo. La preoccupazione del magistrato, a questo punto, dovrebbe essere solo quella di accelerare il processo, non di ostentare lo scalpo del deputato in manette. E tanto meno di promuoverne la condanna mediatica, sommaria e immediata, come anticipo di quella giudiziaria, se e quando dovesse arrivare. Questo, l'avvocato Maroni non dovrebbe farselo ricordare né da un giornalista qualsiasi né dal mancato medico Bossi. Lo dovrebbe capire e far capire da solo agli amici, anche per non perdere la guerra di successione, oltre a questa o quella battaglia.