Non consegnamo alla finanza le chiavi dell’economia reale
Ammettiamolo: dopo il declassamento da parte di Standard & Poor's dell'Italia, della Francia e dell'Austria, e probabile per Belgio, Portogallo, Spagna ed altri paesi dell'euro, a molti verrebbe da dire "mal comune mezzo gaudio". Se non di ridacchiare per la grandeur smarrita di Nicolas Sarkozy. Ma sarebbe una misera consolazione, e soprattutto un errore strategico: se l'Europa continua a muoversi in scia delle agenzie di rating non solo non uscirà mai dalla crisi, ma si condannerà ad un futuro di ricette economiche drammaticamente sbagliate. Che a loro volta produrranno anni, forse decenni, di recessione, zero sviluppo, consumi al minimo, produzione destinata soprattutto all'export, di bassa qualità e ancora peggiore innovazione; ed inoltre lavoro in declino e benessere ridotto a un ricordo. In altri termini, se permetteremo di consegnare definitivamente alla finanza le chiavi dell'economia reale, l'Europa non avrà più alcun futuro. L'euro difficilmente reggerà all'urto e si andrà ad un break-up, ad una doppia moneta o a un doppio corso che vedrà da una parte una riedizione extralarge ed extrastrong del marco tedesco, e dall'altra una valuta di serie B destinata ai paesi mediterranei, e a questo punto forse non solo a loro, con un accesso ai mercati di nuovo complicato, incapace di difendere i nostri risparmi e di rappresentare i nostri interessi nel mondo. Riflettiamo solo su un fatto: S&P ha già declassato da mesi il debito americano, ormai pari al 100 per cento del Pil. Questo significa che gli Stati Uniti sono un paese economicamente e finanziariamente a rischio? Che i bond americani non sono più sicuri? Al contrario: oggi i T-Bond pagano rendimenti minimi, al livello di quelli tedeschi, svizzeri, inglesi. In questa maniera, pur sotto la incerta guida di Barack Obama, l'America si sta tirando fuori dall'ennesima crisi del suo sistema economico e sociale. Pil, fiducia dei consumatori, occupazione e vendita delle case sono tutti in crescita. Noi, che non abbiamo mai nascosto la nostra simpatia per i Gordon Gekko di turno e le diavolerie di Wall Street, continuiamo ad ammirare soprattutto la capacità degli americani di risollevarsi restituendo alle cose la giusta priorità: prima le famiglie e il lavoro, poi la finanza ed il debito. Prima il mondo (che oggi, per loro, significa essenzialmente Cina e Pacifico), poi il debito e il rating. Bye bye vecchia Europa: nella campagna per le presidenziali di novembre, e tanto più nelle primarie repubblicane, non ne parla nessuno. Eppure non è così remota l'immagine degli scatoloni degli impiegati della Lehman Brothers rimasti a spasso, e del ceto medio con il mutuo e la carta di credito a secco. «La questione» diceva il repubblicano Teddy Roosevelt «non è avere dei problemi, ma rimboccarsi le maniche per risolverli». Il suo omonimo successore democratico Franklyn, nel discorso d'insediamento del 1933, in piena Grande Depressione, dichiarò: «Sono convinto se c'è qualcosa da temere è la paura stessa, il terrore sconosciuto, immotivato e ingiustificato che paralizza. Dobbiamo sforzarci di trasformare una ritirata in una avanzata. Chiederò al Congresso l'unico strumento per affrontare la crisi: il potere di agire ad ampio raggio, per dichiarare guerra all'emergenza. Un potere grande come quello che mi verrebbe dato se venissimo invasi da un esercito straniero». Ebbene, noi europei che cosa stiamo facendo contro l'invasione della finanza speculativa? Contro le stesse agenzie di rating? Dal maggio 2010, da quando cioè è esplosa la crisi della Grecia, non siamo stati capaci di gestire il problema di un paese che vale due regioni italiane: è di oggi la notizia dell'ennesima sospensione delle trattative sul debito di Atene. In compenso ci siamo dotati di meccanismi complicatissimi che – come ha ammesso ieri Mario Draghi a proposito dalla European Banking Authority – non riescono neppure a dialogare tra loro. Dobbiamo far finta che una banca centrale, i cui vertici sono tutti scelti dai governi, ignorino ciò che quegli stessi governi e relative opinione pubbliche fanno, pensano, chiedono. Sono tutte persone stimabili, ma nel momento di massima emergenza abbiamo pensato bene di sigillarli in una torre d'avorio, l'Eurotower appunto. È come se in guerra avessimo i missili ma decidessimo di usare le fionde. Abbiamo istituito un fondo salva-stati; peccato che non ci abbiamo messo soldi, ma garanzie e strumenti collaterali. E da chi dipendono questi strumenti? Dalle agenzie di rating. Il risultato è che nella zona euro a fregiarsi della tripla A, e quindi a garantire il teorico soccorso dei paesi a rischio (cioè di tutti noi) sono ormai quattro su diciassette: Germania, Olanda, Finlandia e Lussemburgo. Se recuperassimo un minimo di orgoglio, se ci ricordassimo di che cosa è stata l'Europa nei momenti d'oro, se alzassimo gli occhi a ciò che si muove nel resto del pianeta anziché star lì a guardarci l'ombelico, manderemmo al diavolo tutte le Standard & Poor's di questo mondo. Tratteremmo il debito (che certo dobbiamo ridurre) esattamente come gli americani, gli inglesi, i giapponesi: rivendendolo alle migliori condizioni. Del resto i tedeschi lo fanno già, finanziandosi a tasso zero e guadagnandoci. Della Francia di Sarkò si può pensare tutto il bene e il male: immaginare però che possa fallire e costituire un rischio globale è da idioti. Sapete quante sono le aziende quotate a Wall Street che hanno la tripla A? Due: Ibm e Microsoft. Non risulta che ne muoia nessuno.