Un processo politico non dichiarato
Quello contro Nicola Cosentino è un processo politico non dichiarato. Già quando si trattò di Giulio Andreotti, questo tipo di processi fu ampiamente metabolizzato dal sentimento giuridico nazionale. Come definire altrimenti l'idea di applicare anche al reato associativo di cui all'articolo 416 bis del codice penale l'istituto del concorso di persona previsto dall'articolo 110 del medesimo codice? Come rassegnarsi a far propri valori e contenuti del cosiddetto diritto penale di lotta (seppure alla camorra), rubricati poi in dottrina come "diritto penale del nemico" da opporre al più mite e garantista "diritto penale del cittadino" della nostra Costituzione? Si è radicata in Italia, complici i Caselli e i Mannoia, poi gli Ingroia e i Ciancimino e con loro i nostrani De Magistris, Narducci, Woodcock, una connotazione dei reati associativi sempre più preventiva e sempre meno repressiva, con evidente anticipazione della tutela, connessa alla lesione o alla messa in pericolo di un bene giuridico sfuggente e impalpabile quale il cosiddetto "ordine pubblico". In nome dell'"ordine pubblico" qualcuno diventa "nemico pubblico", bersaglio da eliminare politicamente, benché su di lui giuridicamente ogni ipotesi accusatoria derivi soltanto da pentiti. Il carcere deve essere per forza di cose preventivo e prescindere da ogni accertamento dibattimentale. Si innesta qui quel che è capitato a Cosentino, da sempre indagato ben oltre i limiti di tempo e di confini della competenza, destinatario di una sorta di procedura ad personam nella quale l'elemento della consapevolezza rimane estraneo all'accertamento investigativo. Ha un bel dire l'ex ministro Maroni che dalla magistratura Cosentino sia sempre stato considerato «un cittadino come tutti gli altri» o che la tunica di referente ideologico dei Casalesi gli sia stata cucita addosso indipendentemente dal ruolo di parlamentare. Finora alla Camera ha prevalso la tesi secondo cui le condotte associative possano perseguirsi senza nemmeno un inizio di esecuzione del programma criminoso e addirittura al di fuori di un'effettiva partecipazione al sodalizio. La cultura dominante è parsa quella della tradizione comunista: al compagno da eliminare nella Linea di condotta di Bertold Brecht altri compagni spiegavano che «è terribile uccidere», ma a loro «non è permesso di non uccidere». Un comunista diverso da Brecht, l'onorevole Giuliano Pisapia, nella XIII e XIV aveva argomentato in modo diverso: non si può rinunziare ad una disposizione normativa che preveda e descriva concretamente le condotte punibili distinguendole da quelle che si traducono nella stabile partecipazione al sodalizio criminale. La responsabilità delle condotte agevolatrici non può ricavarsi dalla generica tutela di un generico ordine pubblico, quanto piuttosto iscriversi nella più specifica identità della giustizia. Si è voluto da qualche anno che Nicola Cosentino non fosse più un imputato. Lo si è trasfigurato in un mostro (peggio di un presunto colpevole), di cui pretendere le dimissioni da essere umano: francamente si è esagerato; onore a quanti oggi alla Camera rifiuteranno di associarsi a questo teorema.