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Una decisione politica che separa Bossi e il Cav

Da sinistra Silvio Berlusconi e Umberto Bossi

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E pensare che, pur conoscendo la decisione della Lega di votare per l'arresto di Nicola Cosentino, come ha fatto ieri nella competente giunta della Camera e tornerà a fare domani in aula lasciando probabilmente scattare le le manette ai polsi del deputato del Pdl, erano ancora in molti a scommettere nello stesso Pdl, sempre nella giornata di ieri, sull'alleanza politica con il Carroccio. «Ora la Lega - diceva comprensivo, per esempio, l'ex ministro degli Esteri Franco Frattini alla Stampa - fa il suo gioco perché ha un elettorato diverso dal nostro». Un elettorato notoriamente «giustizialista»: quello del cappio sventolato nell'aula di Montecitorio nel 1993, fra lo sbigottimento e le proteste dell'allora presidente della Camera Giorgio Napolitano, per sostenere i processi sommari, con relative esecuzioni mediatiche, e non solo mediatiche, contro gli inquisiti di Tangentopoli. Molti dei quali erano però destinati a non essere nemmeno rinviati a giudizio, e molti altri ad essere assolti, per non parlare di chi, finito in carcere in via "cautelare", si uccise per disperazione. O di chi preferì ammazzarsi prima, piuttosto che sperimentare una detenzione che di cautelare non prometteva proprio nulla.   Furono i casi, rispettivamente, di Gabriele Cagliari, già presidente dell'Eni, del deputato socialista Sergio Moroni e di Raul Gardini. Che, per quanti errori e reati avesse potuto commettere da imprenditore, aveva pur il diritto, invece negatogli, di essere interrogato prima che il pubblico ministero che si occupava di lui, il già allora mitico Antonio Di Pietro, si facesse la convinzione di chiederne l'arresto. Alla Lega, evidentemente, quel modo di gestire indagini e di fare giustizia piaceva molto. Ed è forse tornato a piacere, se mai da quelle parti hanno smesso davvero di apprezzarlo durante i lunghi, forse troppi anni di alleanza politica e persino di collaborazione governativa con il super imputato Silvio Berlusconi. I cui governi passano, nonostante la rappresentazione da "regime" fattane dagli avversari, ma i cui processi restano. E sono probabilmente destinati a crescere, tanto per far passare al Cavaliere la voglia, se mai gli dovesse veramente tornare, di ricandidarsi anche la prossima volta a Palazzo Chigi, visto che l'arrivo di Mario Monti non ha prodotto quel miracolo dei mercati previsto o baldanzosamente annunciato dai suoi sprovveduti oppositori. Non per voler essere impietoso, ma solo per dovere di cronaca, che deve precedere ogni analisi, debbo ricordare che l'ineffabile Frattini è riuscito nella sua intervista di ieri a spendere parole di comprensione e di fiducia persino per l'ex ministro leghista Roberto Maroni. Che nella decisione di votare per l'arresto di Cosentino ha svolto un ruolo, diciamo così, importante. Ed ha voluto assumersi l'onore e il piacere di annunciarla ai giornalisti che aspettavano la fine del vertice leghista dedicato a questa e ad altre vicende. «Maroni - ha detto Frattini - non ha le mani libere se prima non si impadronisce della leadership della Lega». Figuriamoci di che cosa sarà e vorrà essere capace l'ex ministro dell'Interno, pur simpatico per tanti altri versi, ed anche per le ottime prove date al Viminale, se e quando riuscirà veramente a succedere a Umberto Bossi, con le buone o con le cattive, e ad avere le «mani libere». Come le chiama Frattini, peraltro dichiaratamente consapevole dell'impegno già messo nei mesi scorsi da Maroni a favore di una precedente richiesta d'arresto contro Cosentino, allora mancando l'obbiettivo. Ma centrandolo, in compenso, con l'arresto del deputato, anche lui del Pdl, Alfonso Papa. Che è stato solo di recente rimesso in libertà, a processo già iniziato con rito peraltro immediato, motivabile solo con la consapevolezza di chi lo ha richiesto e disposto di avere raccolto tutte le prove necessarie a sostenere decentemente l'accusa, immuni quindi dai rischi di occultamento o inquinamento. Che invece, insieme con quelli ancora più improbabili di fuga e di ripetizione del resto, sono stati per un bel po' accampati per giustificare la detenzione di Papa prima del giudizio. Personalmente debbo confessare di non conoscere l'ex sottosegretario Cosentino. E persino di non avere per lui molta simpatia, non avendo in particolare apprezzato l'ostinazione con la quale egli ha voluto conservare troppo a lungo il suo ruolo di coordinatore regionale del Pdl, anche quando era al governo ed era più evidente che non potesse fare bene contemporaneamente l'una e l'altra cosa. Ciò almeno per ragioni di tempo, da lui stesso riconosciute d'altronde quando si dimise tardivamente da sottosegretario, sotto l'incalzare di una mozione parlamentare di sfiducia. Ma mi ripugna l'idea che un deputato, qualsiasi deputato, o senatore, possa finire in manette per valutazioni politiche, per decisione di un partito più che per valutazione dei suoi parlamentari. Mi fa sempre orrore lo spettacolo delle dichiarazioni di voto che si fanno nelle aule parlamentari a nome dei gruppi, e dei partiti di riferimento, quando si deve decidere sulla vicenda giudiziaria di un deputato o senatore, di qualsiasi colore egli sia. Non so se e quanti nel Pdl vorranno ancora sognare con Frattini la ripresa dell'alleanza politica con la Lega anche dopo questo strappo, magari solo per non compromettere la collaborazione ancora esistente nelle amministrazioni regionali, provinciali e comunali del Nord. Ma non mi piacerebbe in fondo neppure l'idea che i sogni di una nuova alleanza, o della prosecuzione della vecchia, con il Carroccio finissero nel partito di Silvio Berlusconi e di Angelino Alfano solo o soprattutto per questo strappo, per quanto importante esso sia. In realtà, l'alleanza del Pdl con la Lega, prima ancora del caso Cosentino, e delle parole e dei gesti che da qualche tempo Bossi riserva personalmente anche al Cavaliere per la via libera data al governo attualmente in carica, si esaurì nella estate scorsa. Quando i leghisti, senza distinzione fra l'uno e l'altro "cerchio", magico e non, in cui sembrano articolarsi le loro vicende interne, impedirono al governo Berlusconi di adottare, d'intesa con la Banca Centrale Europea e, più in generale, con l'Unione omonima, tutte le misure imposte dalla crisi economica e finanziaria.

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