Lo "strano" esecutivo del Professore
Per due volte, all'inizio e alla fine della sua prestazione televisiva nel salotto di Fabio Fazio, a Rai3, il presidente del Consiglio Mario Monti per definire il suo governo tecnico si è lasciato scappare l'aggettivo «strano», evitato nei discorsi parlamentari d'insediamento e di altro tipo pronunciati dopo la sua nomina. Ed ha reagito con un'espressione anche visiva di incredulità, e sorpresa, quando il conduttore di Che tempo che fa gli ha chiesto se dopo questa esperienza strana di governo, o di governo strano, come preferite, egli intenda «non fare più politica». «Vuol dire che quella che sto facendo adesso è politica?», gli ha chiesto a sua volta il presidente del Consiglio rivendicando il merito, o il proposito, di fare con il suo governo soltanto da «intercapedine» fra l'opinione pubblica e i partiti. Che si sono un po', o un po' troppo, «divaricati» in questi ultimi anni. Ma è strana questa intercapedine che Monti ritiene di rappresentare. Strana perché non sembra neutra, come forse dovrebbe essere un'intercapedine. Essa propende forse a tutelare più l'opinione pubblica che i partiti, per i quali mostra certamente rispetto, sapendo che in fondo sono i rami d'albero su cui siede con i voti di fiducia parlamentare anche il suo governo tecnico, ma usa anche la sferza, o quasi. Lo ha fatto, per esempio, precedendo l'appuntamento televisivo di ieri con una intervista al giornale della Confindustria Il Sole 24 ore nella quale ha ricordato loro, senza mezzi termini, che non si può derogare all'obbligo di ridurre finalmente «i costi del sistema politico burocratico». «Il governo - ha avvertito - prenderà presto misure forti». Ed ha aggiunto che «il lavoro è a buon punto». Altro che «voglia di lavarsi le mani», ha detto Monti smentendo le impressioni ricavate dagli interessati quando egli stesso e i suoi ministri hanno riconosciuto, nei giorni scorsi, la competenza primaria o esclusiva rivendicata dalle Camere per gli interventi sul trattamento economico, diretto e indiretto, dei parlamentari. Che è un tema già posto sul tappeto dal precedente governo di Silvio Berlusconi ma che si è sinora prestato, al di là degli annunci dei presidenti di Montecitorio e di Palazzo Madama, e di talune iniziative dei loro uffici, a manovre sostanzialmente dilatorie. O addirittura al tentativo, compiuto grazie anche agli appigli forniti da una commissione incaricata di raccogliere dati europei più o meno comparabili, di rappresentare i costi parlamentari italiani tra i più bassi nel vecchio continente. Monti, peraltro senatore anche lui, e a vita, da circa due mesi, non sembra francamente convinto di questa stucchevole rappresentazione della realtà, smentita da un confronto fra gli stanziamenti destinati alle Camere italiane e quelli destinati agli altri Parlamenti in Europa e altrove. E che coprono naturalmente solo una parte dei costi della politica, cui vanno aggiunti quelli degli altri organismi elettivi, di vario livello, e dei partiti, finanziati dallo Stato con il sistema dei cosiddetti rimborsi elettorali e con le sovvenzioni ai loro giornali. E tutto questo per restare sul terreno politico, e non addentrarsi in quello "burocratico" di cui pure ha parlato Monti nella sua intervista al giornale della Confindustria. Che già prima della presidenza di Emma Marcegaglia aveva denunciato, in particolare con Luca Cordero di Montezemolo, il problema degli enormi costi della politica italiana. Un altro problema trattato con particolare puntiglio dal presidente del Consiglio con Il Sole 24 Ore, propedeutico al ruolo attivo, e credibile, che con lui l'Italia si è assegnata nella cosiddetta governance dell'Europa investita da una grave crisi economica e finanziaria, è quello delle «liberalizzazioni, infrastrutture e riforma del lavoro su tutto". Una priorità, quest'ultima, che i sindacati gradiscono assai poco, o per niente, a cominciare naturalmente dalla Cgil, già distintasi per la sua insofferenza di fronte ai «tempi stretti» reclamati dal governo per i confronti bilaterali avviati dalla ministra Elsa Fornero con la segretaria generale della stessa Cgil, cui potrebbe seguire una fase collegiale. Che difficilmente Monti permetterà però di trasformare in un espediente dilatorio, visto che ha fissato in non più di due mesi il periodo entro il quale intende completare il pacchetto di provvedimenti, o riforme, finalizzato a quella ch'egli stesso usa definire «la crescita» dell'Italia. È proprio sulla crescita che il presidente del Consiglio è tornato parlando così della riforma del mercato del lavoro, e di tutto ciò che ne consegue, anche in materia evidentemente di disciplina dei licenziamenti, non a caso inserita fra le richieste o raccomandazioni, contenute nella famosa lettera di agosto della Banca Centrale Europea all'allora governo Berlusconi: «Bene gli aspetti giuridici, ma deve essere chiaro che ci troviamo di fronte a un problema di crescita carente e di malfunzionamento del sistema economico, con una conseguente alta disoccupazione giovanile».