Il Paese sull’albero di Bertoldo

Più che di San Francesco, o di Dante, o di Machiavelli, o di Garibaldi, o di Cavour, o di Einaudi, il presidente della Repubblica appena celebrato dal suo ultimo successore felicemente "regnante" al Quirinale, noi italiani siamo diventati il popolo di Bertoldo. Di cui tutti vorrebbero imitare la furbizia reclamando dal giustiziere di turno il permesso di scegliere l’albero al quale lasciarsi appendere, non riuscendo naturalmente a trovare mai quello giusto. Bisognerà tuttavia vedere se il presidente del Consiglio Mario Monti, arrivato a Palazzo Chigi per fare il lavoro ingrato di risanamento dei conti, e di tutto il resto, rifiutato dai suoi predecessori e dai loro disomogenei schieramenti, si lascerà infinocchiare come il giustiziere di Bertoldo. Ma se lo farà, anche a dispetto dello scudo che gli offre ogni giorno il capo dello Stato, tornato ieri a parlare dalla sua Napoli, pure il suo governo tecnico finirà nella voluminosa spazzatura delle occasioni perdute. E Bertoldo tornerà, anzi continuerà a festeggiare. Dopo i tassisti, i farmacisti, i commercianti e quanti altri rifiutano la liberalizzazione delle loro attività reclamando che si cominci con quelle degli altri, i sindacati sono ridiscesi in campo, se mai se ne fossero ritirati, per sottrarsi alla stretta del confronto chiesto dal governo sulla riforma del cosiddetto mercato del lavoro. Prima essi hanno contestato le modalità di questo confronto, da condurre con incontri non separati ma collegiali, nella presunzione di potere insieme resistere meglio alle ragioni del cambiamento. Poi hanno contestato i tempi brevi indicati dal governo per arrivare alle necessarie decisioni prima degli ormai imminenti appuntamenti europei. Ai quali il governo italiano potrà arrivare con l’autorevolezza da tutti reclamata per non continuare a farsi dettare "i compiti" a casa dalla coppia Sarkozy-Merkel solo se avrà già dimostrato con i fatti, e non solo con le parole, di sapere e volere rispettare gli impegni già presi. Persino il segretario del Pd Pierluigi Bersani, che tra i sostenitori del governo tecnico è certamente il più sensibile alle resistenze e ai mal di pancia sindacali, a cominciare da quelli della segretaria generale della Cgil Susanna Camusso, ha riconosciuto ieri in una lunga lettera al giornale La Repubblica la necessità di "salvaguardare comunque la decisione tempestiva" sulle questioni riguardanti appunto il mercato del lavoro, cioè la sua disciplina: dalle assunzioni ai licenziamenti. Della vocazione bertoldiana di quella che potremmo chiamare l’alta burocrazia, che nelle sue mani ha le chiavi del funzionamento della pubblica amministrazione, il presidente del Consiglio ha già avuto modo di rendersi conto con la manovra "Salva Italia". E di rimetterci anche qualche penna, rinviando o diluendo in decreti di là da venire tetti ai compensi e divieti di cumulo di stipendi e mansioni. Che per giunta sono spesso, insieme, di controllati e controllori. Non parliamo poi della politica e dei suoi costi. La cui riduzione è una necessità etica, prima ancora che economica, perché anche per i sacrifici l’esempio deve venire dall’alto, dove quelli riservati ai cittadini vanno prima decisi, a livello di governo, e poi approvati nelle aule parlamentari. Il già raffazzonato e ambiguo capitolo della promessa riduzione dei costi della politica e di quanti la rappresentano e realizzano, dal Parlamento ai partiti, anche quelli che magari alle Camere non riescono ad arrivare o a tornare ma godono ugualmente di finanziamenti pubblici, per quanto chiamati in altro modo per aggirare l’abrogazione referendaria delle disposizioni in vigore sino al 1993, ha riservato nelle ultime ore altre stucchevoli sorprese. Una commissione di studio reclamata e ottenuta dal Parlamento nella scorsa estate, quando era ancora in carica il quarto governo Berlusconi, per individuare una media europea degli emolumenti dei deputati e dei senatori cui poter allineare quelli italiani ha prodotto un documento di cui Bertoldo andrebbe orgoglioso. Esso infatti contiene dati della cui affidabilità la commissione è stata ed è la prima a dubitare, per iscritto, un po’ lamentando i tempi troppo ristretti messi a sua disposizione dal precedente governo e confermati da quello successivo, e un po’ scoprendo il carattere, a suo avviso, troppo disomogeneo del trattamento economico dei parlamentari dei paesi europei presi a modello nella ricerca. Biada preziosa per le scuderie di Montecitorio e Palazzo Madama, e dintorni, dove molti vorrebbero cambiare poco o niente, convinti di essere non in debito ma in credito di autorevolezza e parsimonia.