Il cavalierato dell’ottimismo L’ombra di Silvio su Monti
Oltre alla tessera professionale di giornalista, consegnatagli dal presidente dell'Ordine nazionale, Enzo Iacopino, all'inizio della conferenza stampa di fine anno, Mario Monti si è guadagnato ieri un Cavalierato molto particolare: quello dell'ottimismo. Che ha però preso in prestito, citandone le parole pronunciate in analoga circostanza l'anno scorso, dal suo predecessore Silvio Berlusconi. Il quale è notoriamente convinto sia come imprenditore sia come politico che sul pessimismo non si possa costruire niente. O solo la fortuna dei propri concorrenti. Chi non si è ancora rassegnato al nuovo presidente del Consiglio e gli fa ogni giorno le pulci, pur avendo festeggiato la partenza da Palazzo Chigi del precedente inquilino, ha ora un motivo in più per vedere e denunciare l'ombra perdurante del Cavaliere, quello vero, sulla scena del governo. «Comanda sempre lui», titolava di recente un giornale di sinistra ostile a Monti riferendosi appunto a Berlusconi. Figuriamoci come ci sono rimasti da quelle parti vedendo e ascoltando ieri il successore che ne condivideva gli appelli all'ottimismo, in qualche modo doverosi per uno che guida il governo, purché li sappia naturalmente coniugare con una rappresentazione realistica e ragionata di fatti e circostanze, a cominciare, nel nostro caso, da quella curva ancora dannata dello spread prodotto dal confronto fra il rendimento dei titoli di Stato italiani e tedeschi. Ma Monti ha anche tenuto a sottolineare la continuità fra gli impegni presi a Bruxelles dal suo predecessore e le misure che il suo governo tecnico ha dovuto poi adottare per cercare di mettere veramente il Paese al passo con l'Europa. Viene voglia, a questo punto, di chiedersi perché mai il Cavaliere, sempre quello vero, mostri ogni tanto, specie quando parla con i suoi o si collega per telefono ai loro raduni, di essere il meno soddisfatto o il più insofferente verso il suo successore, pur apprezzandone, per carità, la competenza e non dimenticando che senza il proprio assenso Giorgio Napolitano non lo avrebbe nominato. Probabilmente neppure senatore a vita, precedendo di qualche giorno soltanto il conferimento dell'incarico di presidente del Consiglio. Tanto ottimista ha voluto essere Monti non solo sulla capacità del Paese di uscire dalla crisi, pur dovendo passare per una recessione «senza esplosione», ma anche sulla tenuta del proprio governo, che con aria sorniona, cercando in apparenza solo di sottrarsi ad una delle 31 domande considerata troppo insidiosa per i suoi rapporti con i partiti, ne ha rinviato la risposta alla prossima conferenza stampa. Che egli ha pertanto prenotato, alla faccia dell'opposizione leghista e di quanti altri, anche nella maggioranza, vorrebbero abbreviare la durata del governo. «Che - lo stesso Monti ha però tenuto ad ammettere - è nelle mani dei partiti» che lo sostengono, e non in altre: neppure in quelle, a questo punto, del presidente della Repubblica, che lo ha nominato e ne accompagna il cammino con parole e iniziative di incoraggiamento. Di cui purtroppo ogni tanto qualche ministro mostra di non rendersi conto, com'è accaduto alla professoressa Elsa Fornero con la frettolosa retromarcia sulla strada, fortunatamente non abbandonata invece da Monti, della riforma del cosiddetto mercato del lavoro. Che dovrà essere comprensiva di una nuova disciplina dei licenziamenti, almeno per i neo-assunti, anche nelle aziende sopra i 15 dipendenti. La prenotazione della prossima conferenza stampa di fine d'anno autorizza anche a pensare che il presidente del Consiglio non condivide il disincanto o l'allarme di chi - come Emanuele Macaluso, di cui ieri abbiamo ricordato l'editoriale pubblicato dal suo giornale, Il Riformista - ne ha salutato con sollievo l'arrivo il mese scorso ma ne teme la voglia di mollare di fronte al carattere contraddittorio o ambiguo del sostegno parlamentare di una maggioranza molto anomala. Che è composta non da alleati ma da avversari che danno l'impressione troppo spesso di non vedere l'ora di tornare a darsene politicamente di santa ragione correndo alle urne. Monti ha mostrato di potersi o, se preferite, di volersi fidare dei partiti che lo appoggiano più dei suoi stessi sostenitori, anche i più convinti e apprensivi. Meglio per lui. Che tuttavia, con aria nuovamente sorniona, ha voluto lanciare alle forze politiche che gli hanno dato la fiducia, o potrebbero tornare a dargliela, come nel caso dell'Italia dei Valori di Antonio Di Pietro, dopo avergliela negata sulla manovra economica, segnali a mezza strada tra la rassicurazione e la sfida. Rassicurante, per esempio, è apparso il grande «stupore» espresso dal presidente del Consiglio per l'agitazione di quanti, specie nel Pdl, temono che alcuni ministri facciano i tecnici di giorno e i politici di notte, accettando la corte altrui o facendone di proprie per candidarsi in vecchi o nuovi partiti, o schieramenti, nelle prossime elezioni. Per quanto legittime sul piano dei diritti elettorali costituzionalmente garantiti, Monti ha comunque, e lodevolmente, riconosciuto che queste ambizioni potrebbero creare problemi di compatibilità, diciamo così, con la natura del suo governo. E si è pertanto impegnato a tenere orecchie e occhi ben aperti, com'è augurabile che faccia davvero, e presto, perché le complicazioni è meglio prevenirle che sanzionarle con qualche sgradevole, e peraltro non facile, invito alle dimissioni. Ne sa qualcosa Berlusconi, che ha dovuto tenersi ben stretto il suo "super" ministro dell'Economia sino alla fine, anche dopo avere avuto più di una sensazione, confermata dai fatti successivi alla crisi del suo governo, che Giulio Tremonti si sentisse più vicino alla Lega, e ai suoi veti nell'adozione delle misure economiche anti-crisi, che al Pdl. Nelle cui liste, peraltro rigorosamente bloccate e quindi garantite, egli era stato rieletto alla Camera nel 2008. Non a caso, del resto, Monti ha preferito tenere per sé quel pur gravoso e assorbente Ministero, facendo la spola tra Palazzo Chigi e via XX Settembre. È apparso invece avere anche il sapore di una sfida la competenza esclusiva riservatasi dai partiti, e riconosciuta da Monti, di occuparsi delle riforme istituzionali. Che potrebbero fornire un contributo notevole, se non decisivo, alla riuscita di quel piano di interventi progettato dal governo sul piano economico e dallo stesso Monti chiamato "Cresci Italia", dopo il "Salva Italia" della manovra adottata per stabilizzare i conti e garantire il pareggio di bilancio nel 2013. Se di riforme istituzionali, e nuova legge elettorale, vogliono occuparsi solo i partiti - è sembrato il ragionamento di Monti - facciano pure. Vedremo di che cosa saranno capaci. O incapaci, com'è avvenuto sul terreno economico, lasciato alla competenza sostanzialmente primaria del governo tecnico.