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Le carte del destino nella mani di Berlusconi

Silvio Berlusconi

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Il paladino Agilulfo, allorquando Carlo Magno passa in rassegna le truppe schierate sotto le mura di Parigi, tiene ben chiusa la celata, non mostra il proprio viso e tace. Del resto, egli, il protagonista di un celeberrimo racconto di Italo Calvino, non può fare diversamente per il semplice fatto che non esiste. È, appunto, «il cavaliere inesistente», colui che, per dirlo con le parole del suo creatore, «non c'è ma sa di esserci». Un po' come il prode Agilulfo, anche Silvio Berlusconi, il cavaliere di Arcore, "non c'è", al governo, eppure "sa di esserci". E, dal momento che egli è di carattere assai più impetuoso e scaltro di Agilulfo, si regola di conseguenza. Non si nasconde affatto, ma parla, manda avvertimenti e guarda al futuro. Il "governo dei professori" è, sì, il frutto amaro di uno "stato d'eccezione" varato (con buona pace del Capo dello Stato) con qualche forzatura procedurale e istituzionale, ma è anche un governo che, senza il passo indietro di Berlusconi e senza il suo via libera, non sarebbe probabilmente mai nato. È ancora, pur se nessuno ha il coraggio di chiamarlo così, un "governo di unità nazionale" reso possibile dalla buona volontà, ma anche dall'interesse del Cavaliere a non trovarsi a cavalcare la tigre della crisi e della speculazione internazionali. Questa circostanza Berlusconi l'ha ben presente. E, poiché, stando a quanto sembra e a quanto ha dichiarato esplicitamente, non pensa neppur minimamente di abbandonare l'agone politico, è evidente che ad essa si ispirano tanto certi suoi comportamenti quanto certe sue dichiarazioni.   In parole povere, insomma, Berlusconi sta mettendo in atto una strategia politica che interessa sia il Pdl sia il governo: una strategia che, indipendentemente dalle reali possibilità di riuscita o non, ruota attorno ad alcuni fatti concreti che vale la pena di prendere in esame. Il primo è proprio l'ipoteca berlusconiana sull'esistenza attuale e sul futuro prossimo del "governo dei professori". È questa ipoteca che spiega perché il Pdl possa votare in Parlamento una manovra impopolare e particolarmente odiosa per un elettorato che ha fatto della lotta contro la fiscalità e lo statalismo la propria bandiera. E perché, al tempo stesso, Berlusconi, come portavoce dei "mal di pancia" del suo popolo, possa sottolineare con durezza la natura recessiva di una manovra fondata, almeno per ora, in gran parte sull'aumento della tassazione. Questa strategia del doppio binario permette a Berlusconi di scaricare sulle spalle del "governo di emergenza nazionale" provvedimenti impopolari ma necessari e di incassare il dividendo di una previsione nera, quella di una recessione evitabile soltanto, a suo parere, con una profonda opera di ammodernamento delle strutture istituzionali. È il tema, antico ma sempre nuovo, delle riforme strutturali come premessa del risanamento economico: un tema che fa capolino come un virtuale programma elettorale per una futura campagna elettorale. Berlusconi non pensa di staccare la spina al governo Monti e lo incalza sul terreno degli interventi per la crescita e delle misure di riforma dello Stato, ma non esclude la possibilità che la situazione precipiti e si possa andare ad elezioni anticipate con un centrosinistra sempre più lacerato dalle sue contraddizioni. Il secondo fatto concreto è che il centrodestra sembra non poter prescindere dalla figura del suo fondatore. La leadership di questo schieramento è ancora tutta, piaccia o non piaccia, nelle mani di Silvio Berlusconi, che può recuperare il tema di una "rivoluzione liberale" tradita o non realizzata per colpa delle resistenze corporative, degli interessi consolidati, dei privilegi di casta che hanno bloccato sul nascere i tentativi di ammodernamento istituzionale del paese. E, ancora, della conflittualità interna e dei tradimenti che hanno travagliato e condizionato la vita della coalizione. Che tutto ciò sia vero, o lo sia solo in parte, è altro discorso. Quel che conta è la circostanza che questo tema costituisce, una volta di più, una risposta a una quasi antropologica vocazione antipolitica dell'italiano medio. Indebolito nella sua immagine, per comportamenti e interessi privati e pubblici, Berlusconi ha ancora in mano il pallino del futuro del centrodestra. Un futuro che passa, ovviamente, attraverso la destrutturazione della coalizione e dello stesso Popolo della libertà e la sua prevedibile ricomposizione in altre forme e in altra prospettiva, ma con una classe dirigente profondamente rinnovata. È il compito che si è assunto Angelino Alfano con il progetto, benedetto dal fondatore, di restyling del Pdl e di costruzione di un partito più simile ai partiti tradizionali e funzionale a una battaglia che dovrà riportare, comunque, la politica a riassumere il proprio ruolo e la propria funzione negli gestione degli affari dello Stato dopo la fine della loro "gestione tecnica". Che l'ombra di Berlusconi incomba sul futuro del centrodestra lo conferma il fatto che non sembrano profilarsi, all'orizzonte, competitori in grado di assumere la leadership di uno schieramento essenziale per la dialettica democratica.   L'unica figura che potrebbe candidarsi a questo ruolo, Pierferdinando Casini, non appare interessato, attento com'è a "monetizzare" in termini di consensi la rendita di posizione dovuta all'equidistanza del Terzo Polo dai due schieramenti principali logorati dalla conflittualità interna e dai contraccolpi della reciproca incomunicabilità. Ma, in politica, l'equidistanza, nei tempi medi e lunghi, è destinata a non pagare perché la politica ha bisogno di scelte chiare e coraggiose. Perciò, se giocherà bene le sue carte, Berlusconi avrà un destino diverso da quello di Agilulfo costretto a lasciare ad altri la sua armatura.

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