Non basta una Bce da Draghi
Ieri mattina il presidente della Repubblica ha ricevuto Mario Draghi, e fonti informate riferiscono che non ci si è limitati agli auguri natalizi. Giorgio Napolitano, e non solo lui, è sconcertato per il livello dello spread di nuovo sopra quota 500, e questo proprio dopo l'ok definitivo del Senato al decreto salva-Italia di Mario Monti: non precisamente un biglietto di auguri. Ancora meno se si pensa che i soli effetti di consolidamento sui conti pubblici (esclusi sgravi fiscali e provvedimenti per la crescita) delle tre manovre messe in campo dall'Italia da luglio ad oggi ammontano ad 81 miliardi, ed a 265 miliardi quelli attuati dal 2008. Al tempo stesso Draghi ha chiarito il senso della immissione record di liquidità decisa mercoledì dalla Banca centrale europea: 489 miliardi al tasso dell'uno per cento per tre anni, di cui hanno beneficiato 523 istituti. Il sistema creditizio italiano vi ha attinto non poco: 116 miliardi, poco più di un quarto. Una forma europea di quantitative easing – certo ancora distante dai "miliardi dall'elicottero" della Fed americana – che dovrebbe replicarsi a febbraio. Ma la domanda è: quale strada prendono questi soldi a casa nostra? Non certo quella del sostegno ai titoli pubblici, nonostante l'appello patriottico di Mario Monti. Lo spread resta ai massimi. Ma ciò che più conta è il livello di rendimento del Btp decennale misurato la sera di giovedì dal mercato obbligazionario di Londra: il 6,9 per cento, rispetto al 7,29 del picco del 25 novembre. Trentanove centesimi: un'inezia. Ed imbarazzante è il confronto con i Bonos spagnoli: 5,4 per cento oggi, 6,7 un mese fa: 1,3 punti in meno, il triplo dell'Italia, nonostante che la manovra del nuovo governo di Mariano Rajoy sia stata solo annunciata. Si può allora immaginare che le banche italiane vogliano mettersi di buona lena ad allentare la stretta interna? Al Quirinale Draghi ha certamente ripetuto quanto detto ventiquattrore prima: «Il canale bancario è cruciale per la fornitura di credito alle imprese, soprattutto medie e piccole, e alle famiglie». I buoni propositi non mancano: Intesa Sanpaolo ha annunciato un'operazione «concepita, presentata e realizzata principalmente per ridurre i rischi di razionamento del credito all'economia»; mentre l'amministratore delegato di Unicredit, Federico Ghizzoni, ha quantificato in 70 miliardi i benefici per cittadini e aziende. Peccato che alle parole non seguano ancora i fatti. I tassi overnight (cioè le operazioni di finanziamento tra banche) sono sì discesi in Italia e ieri alle 12 registravano un calo dallo 0,92 allo 0,46 per cento. Però all'estero sono diminuiti dallo 0,51 allo 0,35: certo, si tratta di frazioni. Ma in termini percentuali da noi il denaro continua a costare quasi un terzo più che oltre frontiera. In realtà la sensazione è che le nostre banche utilizzeranno i prestiti della Bce per rifinanziare i loro debiti. Unicredit, Intesa, Ubi, Mps e Banco popolare hanno nel 2012 bond in scadenza per 88,2 miliardi e per 88,3 nel 2013, a tassi tripli o quadrupli di quelli offerti dall'Eurotower. Ovviamente anche di questo può indirettamente beneficiare il sistema-Paese; ma solo in seconda battuta. Quanto all'esposizione sui titoli pubblici, la European banking authority ha cercato di minimizzare la famigerata direttiva che impone agli istituti italiani di ricapitalizzarsi in ragione dei Btp e dei Bot che hanno in portafoglio, considerati fattori di rischio con il metro di paragone riservato alle obbligazioni greche (stesso trattamento per le banche spagnole). Ma la precisazione venuta dal presidente dell'Eba, l'italiano Andrea Enria, non ha in realtà smentito nulla: «Le nostre regole non impediscono l'acquisto di titoli di Stato nazionali, impongono dei requisiti patrimoniali più severi, tra i quali l'aumento di capitale e il taglio dei dividendi. Se la situazione migliora, rivedremo i parametri». Insomma: abbiamo una Bce di Mario Draghi che cerca di imitare come può la Federal reserve di Ben Bernanke allentando il credito. Ed abbiamo un'Authority europea di vigilanza sul sistema bancario che non trova riscontro da nessun'altra parte del mondo, che invece il credito continua a restringerlo. Ma allora quali sono i veri margini di manovra della Bce? Non può essere garante di ultima istanza dell'euro stampando moneta; non può comprare direttamente titoli pubblici, non può imporre alle banche i cosiddetti ratios, cioè il rapporto tra patrimonio e attività. Non può neppure convocare i grandi capi della Deutsche Bank, del Santander, di Unicredit e di Societé Generale per esercitare la tradizionale moral suasion. Insomma, non può fare quasi nulla di ciò che rientra nei poteri normali di qualsiasi banca centrale, Bankitalia compresa. In compenso deve tenere le distanze dai governi, fingendo che non esistano; ma per muoversi attende che Angela Merkel e Nicolas Sarkozy e gli altri leader dell'euro si mettano d'accordo ad ulteriore beneficio dei tedeschi. Certo, a noi europei fa un certo effetto vedere la disinvoltura con cui si sono mossi nella crisi del 2008 gli americani e gli inglesi. Lì le banche centrali hanno davvero impugnato il bazooka, scambiandoselo con la Casa Bianca e Downing Street. Ed è vero che Bernanke e sir Mervyn King hanno praticamente smontato e rimontato a tavolino, assieme al segretario al Tesoro e al Cancelliere dello Scacchiere, i rispettivi sistemi bancari. Così come è non si può negare che i bonus a Wall Street e nella City siano tornati a livelli stratosferici (ma non dimentichiamo i 40 milioni di euro di liquidazione di Alessandro profumo). Però è anche un fatto che gli Usa stanno uscendo dalla crisi: il Pil cresce dell'1,8 per cento, la fiducia dei consumatori misurata dall'Università di Chicago aumenta oltre le attese, il superindice che misura le principali attività industriali ha messo a segno il settimo mese di crescita consecutiva, spinto soprattutto dalle costruzioni e dai beni durevoli. Perfino Obama potrebbe puntare al secondo mandato. È vero che Moody's ha emesso a sorpresa un report sull'Italia in controtendenza rispetto alle stime più pessimistiche, prevedendo un Pil allo 0,2 per cento nel 2012 rispetto alla recessione paventata da tutti. Ma occorre ben altro.