La Fase due non resti sulla carta
Al segretario generale della Uil, mobilitatosi nella protesta con i colleghi degli altri sindacati anche nella pausa natalizia concessasi dal Parlamento dopo l'approvazione definitiva della manovra economica, è sfuggita una frase che meglio, e di più, non potrebbe servire all'agenda di Mario Monti. «Non vorremmo scoprire - ha detto Luigi Angeletti - che l'unica riforma che si farà in Italia è quella delle pensioni». Che peraltro la segretaria generale della Cgil Susanna Camusso, ostinata come quelli che l'hanno preceduta, ritiene di poter ancora bloccare minacciando altri scioperi per riesumare il pensionamento anticipato di anzianità. Il cambiamento delle troppo costose abitudini in materia pensionistica, praticate nonostante l'evidenza dei danni procurati ai giovani, destinati con quell'andazzo a sognarsela la pensione, non può né deve restare l'unico risultato del governo dei tecnici. O degli "indipendenti", come preferisce dire Giorgio Napolitano, che li ha nominati ministri. O degli "esterni", come preferisce scrivere Piero Ignazi sul giornale della Confindustria, intendendo per interni quelli che si scelgono fra i parlamentari in carica. Di cui solo il penultimo segretario della Dc, Arnaldo Forlani, presagendo nel 1992 i venti dell'antipolitica già allora in arrivo, ebbe il coraggio di proporre nei fatti, senza neppure porre mano a una legge, l'incompatibilità rispetto a incarichi ministeriali. Non se ne fece nulla. Ed anche per questo forse Forlani, prima ancora di essere investito pure lui dal ciclone giudiziario di Tangentopoli, decise quell'anno di farsi da parte e di passare la mano a Mino Martinazzoli. Al capitolo delle pensioni, ma anche delle nuove o maggiori imposte inflitte ai contribuenti, più o meno "noti" che siano, per ripetere un aggettivo che ha segnato anche nelle aule parlamentari lo scontro fra il presidente del Consiglio e i suoi critici, avrebbero dovuto accompagnarsi subito, in una unica soluzione, anche altri: quelli più adatti o più direttamente destinati alla ripresa economica, o sviluppo. E che invece o sono rimasti completamente fuori dal decreto "Salva Italia", come ha voluto chiamarlo lo stesso Monti, o sono stati solo abbozzati. E a volte anche contraddetti da soppressioni o rinvii ad altri interventi, per esempio a proposito delle liberalizzazioni e della riduzione dei costi della politica. Che gridano vendetta, diciamoci la verità, sia per la loro dimensione, sia per la difesa che ne fanno partiti e vertici istituzionali, a livello nazionale e locale, liquidando come "qualunquistiche" le richieste di tagli davvero incisivi e avvertibili, sia per la sproporzione fra ciò che spende e ciò che la politica produce in termini di servizi per i cittadini. Appartiene al capitolo delle liberalizzazioni, anche se la Camusso e i suoi colleghi non vogliono sentirselo dire, pure la riforma del cosiddetto mercato del lavoro, comprensiva della disciplina dei licenziamenti. Che fino a quando rimarrà quella di oggi, scambiata da certa sinistra per una diga da difendere a qualsiasi costo dai "matti", come dice Pier Luigi Bersani, aggraverà l'odiosa discriminazione esistente tra i supergarantiti e i precari. E farà passare a chiunque la voglia d'investire in un Paese peraltro già in recessione. Quella che aspetta il governo viene chiamata da chi lo sostiene, con maggiore o minore convinzione, "fase due". Che non è però una bella formula, come lo stesso Monti deve avere avvertito quando ha cercato di sostenere ottimisticamente, nella replica al Senato, che essa si trova in nuce già nel decreto approvato. Di "fase due", reclamata e annunciata, sono purtroppo morti gli ultimi governi sia di Romano Prodi sia di Silvio Berlusconi. Ma non bastano gli scongiuri, ai quali possono indulgere anche professori e tecnici. Monti deve darsi da fare davvero. E i partiti che si sono assunti la responsabilità di appoggiarlo debbono lasciarlo lavorare, davvero anche loro. Se non vogliono scontrarsi alle prossime elezioni come iene attorno ai resti del Paese.