L’equilibrio tra entrate e spesa
Grazie al voto del Senato, alle manovre Tremonti se ne aggiunge in questo fine d’anno un’altra targata Monti. Nel merito, si prevedono ricognizioni attentissime e confronti serrati fra tagli lineari e tasse lineari, rigore effettivo e rigore presunto, equità ed iniquità delle scelte. Ma a fianco di un testo, tanto bestemmiato e pianto fuori dall’aula del Senato e ormai non più emendabile, c’è una preoccupazione che affiora, a cavallo fra orizzonti di politica economica e questioni di politica costituzionale. Ed è preoccupazione legata all’obiettivo dei "conti in pareggio" Invece del pareggio di bilancio, quel che stiamo introducendo nella nostra Costituzione è l’equilibrio del bilancio: cioè quel che fu creato nel 1966 da una memorabile sentenza delle Corte Costituzionale, grazie alla quale l’interpretazione dell’articolo 81 ha potuto essere da allora ben diversa da quella che ne avevano dato i costituenti. Lo ha rilevato nei giorni scorsi il senatore Nicola Rossi e da parte del presidente Monti e dei suoi ministri non si dovrebbe ignorare. In quella sentenza della Corte Costituzionale molti in sede storica spesso ravvisano l’irrimediabile tramonto dell’Italia di Luigi Einaudi e l’irrinunciabile dischiudersi della stagione di Paolo Cirino Pomicino: quasi una sorta di staffetta dal mondo di Mises a quello di Keynes. In effetti, nel 1966 la Corte volle affermare che all’einaudiano quarto comma dell’articolo 81 non andasse attribuito un significato contabile, ma solo un richiamo, tutt’altro che precettivo, ai "limiti che il legislatore ordinario è tenuto a osservare nella sua politica di spesa. "La quale però, precisava la Corte, "deve essere contrassegnata non già dall’automatico pareggio di bilancio, ma dal tendenziale conseguimento dell’equilibrio tra le entrate e la spesa". Data da quella sentenza una pratica di leggi prive di copertura, i cui impatti sul bilancio pubblico si sono rivelati disastrosi. Sicché sarebbe stato assai meglio una riformulazione dell’obbligo di "balanced budget" in termini che precludano davvero e sul serio furbizie interpretative. Ma la materia implica anche un’ulteriore considerazione. Sul terreno costituzionale anche le tasse devono conoscere ambiti e limiti di diritto pubblico. Non meno dell’articolo 81 sul bilancio, anche l’articolo 53 (secondo cui il dovere tributario dei cittadini è direttamente e inscindibilmente legato alla capacità contributiva) è stato più volte in questi anni umiliato e aggirato. Perché non prevedere rango costituzionale anche ad una forma di statuto del contribuente, che consenta di ripensare a tutta quella normativa fiscale di questi anni, ispirata magari a valori ed esempi polizieschi estranea ai criteri e ai valori dello Stato di diritto? Una norma costituzionale di questo tipo servirebbe a sorreggere e non a svuotare l’obiettivo del pareggio di bilancio.