L'anno orribile del Pd diviso sulla flessibità
Se il 2011 è stato l'anno orribile di Silvio Berlusconi, costretto dalla crisi economica e dall'ottovolante dei mercati a dimettersi da presidente del Consiglio, l'incipiente 2012 potrebbe diventare l'anno orribile del Partito Democratico. Già sofferente per avere dovuto approvare, nonostante gli anatemi e le diffide della Cgil, ma anche degli altri sindacati, la sostanziale rinuncia al costoso sistema delle pensioni anticipate di anzianità, esso rischia di dover trangugiare pure l'amaro calice della revisione dell'ormai famosissimo articolo 18 dello statuto dei diritti dei lavoratori. Che, impedendo di fatto i licenziamenti nelle aziende con più di 15 dipendenti, scoraggia quelle minori a crescere e alimenta il mercato del lavoro precario. In verità, non mancano nel Pd esponenti convinti della opportunità di intervenire anche su questa materia. È del Pd, per esempio, il senatore e giuslavorista Pietro Ichino, autore di un disegno di legge non molto dissimile da quello che frulla nella testa del nuovo ministro «tecnico» del Lavoro Elsa Fornero, che è riuscita con ciò a stupire, anzi a indignare, pure come «donna» la segretaria generale della Cgil Susanna Camusso. La quale ne ha definito «folle» il progetto, e «supponente» il governo che si appresta a realizzarlo. Ma Ichino è decisamente in minoranza nel Pd e nel suo gruppo parlamentare al Senato, dove gli deve capitare di sentirsi spesso un marziano, più ancora di un ospite. Paralizzato dalla paura di poter rompere questa volta davvero con la Cgil, con tutte le implicazioni sociali ed elettorali che un simile evento comporterebbe, il Pd ha affrontato la situazione creatasi con gli annunci del ministro del Lavoro arrampicandosi sugli specchi. Ne era una dimostrazione l'Unità di ieri. Che in prima pagina annunciava: «Salviamo l'articolo 18», con il numero ben evidenziato in rosso. E dentro, da pagina 4 a pagina 7, cercava persino di distribuire equamente lo spazio del «dibattito» fra la «buona soluzione» di Ichino, esposta da Paolo Giaretta, e la sua «assurdità», denunciata dall'ex ministro Cesare Damiano. Ma, preceduto da una lunga «analisi» critica di Massimo D'Antoni, intitolata significativamente «L'inutile ossessione della flessibilità in uscita», il giornale storico del Pci e delle sue successive edizioni o sigle avvertiva il governo che «per toccare l'articolo 18 servono le elezioni». Così diceva, o minacciava, il titolo del «commento» affidato a Francesco Cundari. Ma perché mai il governo Monti dovrebbe rinunciare a intervenire prima delle elezioni, o le dovrebbe provocare, e per giunta anticipate, insistendo nei suoi propositi, e rischiando con ciò di perdere l'appoggio determinante del Pd alla Camera e al Senato? Perché -ha spiegato Cundari, ponendo «un problema di metodo, per non dire, più semplicemente democratico»- «nessuna delle forze politiche presenti in Parlamento ne ha prima nemmeno lontanamente accennato agli elettori». Questo, in verità, non è esatto perché della opportunità, anzi della necessità di modernizzare il cosiddetto mercato del lavoro hanno discusso tutti nell'ultima campagna elettorale, e pure nelle precedenti. Ma, anche se così non fosse, sarebbe una ben strana democrazia quella in cui al Parlamento fosse impedito di affrontare problemi imposti dall'emergenza, riconosciuta peraltro dallo stesso Cundari a giustificazione delle misure economiche già adottate dal governo Monti, approvate venerdì scorso dalla Camera e in via di approvazione definitiva al Senato. Dove è scritto, nella Costituzione italiana, che «il senso di responsabilità delle forze politiche», come scrive il commento del giornale del Pd, di fronte alla crisi economica e finanziaria in atto «non può che fermarsi» alle misure già prese e non tentarne altre, perché diversamente si riconoscerebbe al governo il diritto di soddisfare addirittura «una destra ansiosa di offrire ai suoi elettori delusi lo scalpo del sindacato»? La Costituzione più semplicemente e democraticamente garantisce al cittadino il diritto di esprimersi sulle scelte del governo e del Parlamento già prima degli appuntamenti elettorali per il rinnovo delle Camere. Glielo garantisce con l'articolo 75: quello sul referendum popolare «per deliberare l'abrogazione, totale o parziale, di una legge o di un atto avente valore di legge, quando lo richiedono cinquecentomila elettori o cinque Consigli regionali». Vi fecero ricorso i comunisti della Cgil nel 1984 contro l'intervento sulla scala mobile dei salari eseguito dall'allora governo di Bettino Craxi, e approvato dal Parlamento. Essi persero nel 1985, e di brutto.