La negoziazione è il suicidio di un governo tecnico
Il governo ha ottenuto la fiducia lo stesso giorno in cui promette la rivincita. Torneremo sul capitolo liberalizzazioni, affermano, e questa volta non ci fermeremo. Proposito lodevole, ma sarà bene chiariscano a se stessi perché, questa volta, hanno perso. Un simile esito non sarebbe stato possibile, forse neanche pensabile, se non fosse stato il governo stesso a commettere errori procedurali e politici. Il contenuto finale del decreto è, per la grandissima parte (più o meno l’85%), fatto di tasse. In un Paese già in recessione si tratta di una randellata micidiale. Per ragioni tutte legate alla comunicazione, che è stata sapientemente gestita, il dolore della botta ha assunto una valenza positiva, come a dire che era quello che serviva e ci voleva coraggio e sapienza nell’impartirla. Purtroppo, però, non è così: la sapienza sarebbe stata sprecata, perché quel genere d’operazione riesce a chiunque; il coraggio sarebbe stato meglio utilizzarlo per mettere l’Italia nelle condizioni di crescere, facendo venire meno i freni delle rendite di posizione; mentre il dubbio più consistente è relativo al merito e all’efficacia, perché sbagliare la terapia e praticare un salasso al paziente anemico significa avviarlo verso la tomba. Ieri il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ha detto che stiamo scontando anche la contraddittorietà delle risposte che l’Europa ha dato alla crisi. Ha ragione, ma noi lo scriviamo da mesi, ripetendo mille volte che prendere soldi agli italiani senza prima avere spento il fuoco della speculazione contro i debiti sovrani equivale a incenerirli. Non ci sono novità, insomma, sono dati e situazioni che tutti, da tempo, abbiamo il dovere di conoscere. Il governo Monti ha operato in condizioni di grande difficoltà, dati i tempi stretti e le pressioni che ricevevamo da altri Paesi europei, segnatamente da Germania e Francia, oltre che dalle istituzioni dell’Unione. Nessuno può ignorare questo presupposto. Al tempo stesso, però, il governo s’è mosso in una condizione di grande favore istituzionale: nato dalla volontà e con la copertura del Quirinale, dispone, come ieri s’è confermato, dell’appoggio del Parlamento. Che ciò sia dovuto allo stato catatonico in cui si trovano le grosse forze politiche è vero, ma è pur sempre un vantaggio, per l’esecutivo. Partendo da queste premesse, e tenendo conto delle pressioni, il governo ha velocemente preparato un decreto legge, prontamente emanato dal Quirinale. È a partire da quel testo che è cominciato il precipitare. Gli errori tecnici erano imperdonabili. Il che è paradossale, per dei tecnici. Non c’è fretta che tenga, ci sono cose che chiunque sia istruito alla vita istituzionale non può permettersi. A questi si sono sommati errori politici, che qui è bene scarnificare, se si vuol sperare in una «rivincita», ovvero in un secondo tempo gestito con meno superficialità. La matrice dell’errore politico consiste nel credere che il governo possa andare avanti costruendo un consenso bilanciato, vale a dire ascoltando un po’ la destra e un po’ la sinistra, assecondando ora le richieste degli uni e ora quelle degli altri, nella consapevolezza che i provvedimenti passano, e i decreti si convertono, grazie ad una maggioranza parlamentare, che è pur necessario negoziare. Questa tesi è stata esposta, per giunta a sproposito (con riferimento all’ipotetica asta delle frequenze televisive, che è una bischerata in sé), anche pubblicamente. Se procede in questo modo il governo è finito: tradisce la propria natura e il proprio ruolo, avvicinando fino all’immediatezza la propria caduta. Ingloriosa. Deve agire, invece, in base ad un criterio opposto: un governo tecnico, sostanzialmente extraparlamentare, che non sia il frutto di un colpo allo Stato, agisce senza contrattare i propri provvedimenti, ma ispirandoli all’unico equilibrio che concili il mandato con le necessità: scontentare tutti. È ovvio che, tanto per indicare due esempi, l’aumento delle tasse equivale allo sbugiardamento di tutta quanta l’impalcatura politica del centro destra, ed è ovvio che l’elasticizzazione del mercato del lavoro, comprendendo in ciò la cancellazione dell’articolo 18 dello statuto dei lavoratori, equivale a mettere un dito nell’occhio ideologico della sinistra, ma è anche vero che servono soldi per assicurarsi la discesa del debito e servono le condizioni affinché la crescita riparta, quindi procede, tira dritto, e fa le due cose contemporaneamente. Le forze politiche, in un Parlamento che resta sovrano, decideranno il loro voto, ma dopo che sia stato loro comunicata la non modificabilità dei provvedimenti. Così, forse, si salva la capra dell’emergenza e i cavoli delle istituzioni. Non solo contrattare è un suicidio, ma diventa anche un obbrobrio se resta ferma la batosta nei confronti di quelli che non possono sottrarsi, mentre il resto viene meno al solo frusciar delle fronde corporative. Ne deriva uno spettacolo orrido. Capisco quei ministri che sentono il bisogno di dire: ci rifaremo, torneremo alla carica, ci sarà la rivincita. Ma rischia d’essere un inutile massacro se tutti, presidente del Consiglio in testa, non avranno la forza di ammettere l’errore compiuto. E di ammetterlo pubblicamente, perché la sola ipotesi che qualcuno faccia il furbo, subordinando l’interesse generale a un qualsiasi disegno politico, farà uscire allo scoperto un branco di volpi spelacchiate. Ma con le fauci sempre possenti.