Cerca
Cerca
Edicola digitale
+

"Grande prova del Parlamento" Napolitano perdona i deputati

Il capo dello Stato Giorgio Napolitano

  • a
  • a
  • a

L'elogio della Camera che il presidente della Repubblica, reduce dal concerto di Natale alla Basilica di Assisi, ha voluto fare ieri per la «grande prova» data il giorno prima con l'approvazione della manovra economica non si spiega solo con il ruolo di protettore, diciamo così, assunto verso il governo tecnico guidato da Mario Monti. Che egli ha tenacemente voluto il mese scorso per la soluzione della crisi apertasi con le dimissioni di Silvio Berlusconi, convincendo quasi tutti i partiti ad accettarlo, nonostante le forti tentazioni elettorali esistenti nei due maggiori: il Pdl e ancora di più il Pd. Dove a preferire il ricorso anticipato alle urne, incoraggiato dai sondaggi che gli davano buone possibilità di vincere, anche come candidato alla presidenza del Consiglio, nonostante la concorrenza pretesa con le primarie da Nichi Vendola, era il segretario in persona del partito, Pier Luigi Bersani. Il quale ancora l'altro ieri, proprio mentre la Camera si apprestava ad approvare la manovra, dopo il passaggio della fiducia chiesta e ottenuta dal governo, ha voluto ribadire «l'orizzonte elettorale» del Pd. Tanto da indurre Massimo D'Alema a precisare che è comunque un orizzonte da conclusione non anticipata ma ordinaria della legislatura, nella primavera del 2013. Il capo dello Stato ha voluto elogiare il lavoro appena svolto dalla Camera per allontanare da essa il sospetto di una svogliata o troppo sofferta approvazione per via dei 130 assenti dalla votazione finale: quasi cento in più di quella precedente sulla fiducia, una settantina dei quali peraltro di appartenenza berlusconiana. Ha tenuto a sottolinearlo il capogruppo del Pd Dario Franceschini rivendicando ai suoi compagni e amici di partito il merito di avere partecipato al 97 per cento alla votazione conclusiva nella tarda serata dell'altro ieri, solo di due punti inferiore a quella sulla fiducia nella tarda mattinata. La comprensione del capo dello Stato per i tanti assenti dell'altra sera nell'aula di Montecitorio, al termine - oggettivamente - di una giornata molto pesante, densa di discussioni e voti su una quantità industriale e assai opinabile, ormai, di ordini del giorno, vista la sostanziale destinazione del cestino che poi li attende, può forse apparire anche un perdono agli occhi di chi si è abituato pure all'estero, per esempio dalle parti del New York Time, a parlare e a scrivere di Napolitano come di un «Re Giorgio» di un'Italia curiosamente ancora repubblicana. Ma l'immagine, pur paradossale, del perdono è un po' eccessiva. Più semplicemente, il presidente della Repubblica ha voluto far capire di conoscere bene, per antica consuetudine, il modo di pensare e di muoversi dei deputati, compreso il fascino irresistibile dei treni e degli aerei, cioè delle partenze da Roma, in una giornata di venerdì, com'era appunto quella dell'altro ieri. Una giornata in cui la fretta della valigia prevale sulla paura di apparire troppo poco impegnati o, se preferite, troppo disimpegnati, e persino insofferenti alla linea, se non agli ordini, del gruppo o partito di appartenenza. Ciò specie quando si sa che comunque la propria assenza non è destinata a compromettere l'esito di una votazione, come invece accadeva ormai sistematicamente con i passaggi parlamentari del precedente governo, dopo che il Cavaliere aveva perso l'appoggio dei finiani ed aveva cominciato a perdere anche quello dei parlamentari accorsi dall'opposizione a dargli una mano per rimediare alla rottura con Fini.   La giornata di venerdì ha una carica di smobilitazione, o addirittura di ricreazione, pari solo a quella delle vigilie di Natale, Pasqua e Ferragosto, quando i governi e i leader di turno riescono a strappare tutto ai deputati e senatori smaniosi di partire e di chiudere la partita in corso. Non dimenticherò mai l'ironia persino autolesionistica con la quale un uomo che Napolitano ha conosciuto e frequentato bene, il compianto e suo conterraneo Giovanni Leone, mi commentò la propria elezione a capo dello Stato. Che, mancata il giorno prima per un solo voto, avvenne al ventitreesimo scrutinio il 24 dicembre del 1971 con 518 voti, tredici in più del quorum, cioè del minimo richiesto per essere eletto in un'assemblea di 1008 fra deputati, senatori e delegati regionali chiamati quel giorno a scegliere il successore di Giuseppe Saragat al Quirinale. «Che volete? Alla vigilia di Natale - mi disse - non si nega un regalo a nessuno». E scoppiò a ridere, come solo lui sapeva fare scaricando le tensioni quando si erano troppo addensate. Di tensioni, se n'erano accumulate tantissime allora sulla testa, o sulle spalle, del povero Leone. Che la Dc e gli altri partiti di centro avevano candidato al Quirinale dopo un lungo e tortuoso scontro avvenuto davanti e dietro le quinte, sopra e sottotraccia, tra quelli che allora venivano chiamati, ed erano effettivamente, «i due cavalli di razza» dello scudo crociato: Amintore Fanfani, in quel momento presidente del Senato, e Aldo Moro, in quel momento ministro degli Esteri. Che i comunisti non vedevano l'ora di votare se la Dc lo avesse designato o lui avesse accettato di farsi votare senza aspettare la designazione dal partito, o contro di essa, se fosse andata ad un altro. Ma Moro non ci pensò neppure. Altri tempi, si dirà. E altri uomini, fra i quali in Parlamento c'era già allora Napolitano, approdato alla Camera nelle liste del Pci nel 1953, all'età di soli 28 anni. Egli aveva maturato il diritto all'elezione a deputato solo tre anni prima, occorrendone 25 in base all'articolo 56 della Costituzione. Altrimenti il suo partito e gli elettori - allora c'erano per i candidati a Montecitorio i voti di preferenza - lo avrebbero probabilmente promosso già nel 1948. Quando si era votato, il 18 aprile, per la prima legislatura della Repubblica. Alla Camera, quindi, si può ben dire che Napolitano abbia vissuto la sua vita, comprendendone le pulsioni e scalandone tutti i gradini, sino alla presidenza dell'assemblea fra il 1992 e il 1994, con la costanza che molti italiani hanno forse imparato ad apprezzare, o scoperto, solo quando lo hanno visto all'opera al vertice dello Stato. Dove approdò giurando il 15 maggio 2006, cinque giorni dopo l'elezione avvenuta con 543 voti favorevoli e 347 schede bianche. Che furono quelle di Forza Italia e di Alleanza Nazionale. I cui dirigenti, pur non condividendo il metodo adottato dai partiti dello schieramento di Romano Prodi per rivendicare anche il Quirinale dopo avere vinto le elezioni con il classico pugno di voti, peraltro soggetti anche a contestazioni e verifiche, rinunciarono significativamente a contrapporgli un loro candidato. Era un riconoscimento delle qualità della persona scelta dal centrosinistra. Nel cui perimetro c'era stata una sofferta competizione tra i sostenitori di Napolitano e quelli di Massimo D'Alema. Conclusasi fortunatamente a vantaggio del primo.

Dai blog