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E se i ricchi scendessero in piazza?

Il ministro del Welfare Elsa Fornero e il premier Mario Monti

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«Monti è un Robin Hood al contrario, ruba ai poveri per dare ai ricchi». Ecco il "cinguettio" che va per la maggiore su Twitter. Vox populi, vox Dei. Sarà, ma a volte anche il popolo cade nel tranello del ricco-uguale-evasore, vittima di un populismo che non fa ragionare. Così la nausea per i privilegi della casta si confonde con un generalizzante «i ricchi devono pagare di più». Guai a contestare la tesi del popolo, se lo fai vuol dire che siedi su una poltrona di pelle umana, guadagni diecimila euro al mese facendo solo lavorare gli altri mentre te ne stai a bere champagne nel tuo loft pagato in contanti prelevati dal tuo conto svizzero dopo aver scudato, giri in Suv e c'hai pure lo yacht che batte bandiera delle Cayman. Ma al netto dei ricchi evasori, e dunque ladri, ci sono anche i ricchi onesti che pagano tasse – fiumi di tasse – e che avrebbero tutte le ragioni per scendere in piazza e protestare. Sul sito di Libertiamo, l'associazione di cultura politica di stampo liberale, nei giorni scorsi è stato pubblicato un interessante contributo a firma di Marco Faraci che ha lanciato una provocazione: e se a fare sciopero fossero i ricchi con una sorta di «Rich Pride» aperto a tutti coloro che rifiutano l'anatema nei confronti del denaro? Il ragionamento parte da un esempio. Il signor Rossi ed il signor Verdi siedono a due tavoli nella stessa trattoria. Mangiano le stesse pietanze e la cucina non è certo di prima qualità; la minestra sembra riscaldata e l'affettato del piatto freddo è un po' stantio. Poi il cameriere porta il conto. Il signor Rossi spende 10 euro, mentre al signor Verdi vengono chiesti 1090 euro. Quest'ultimo rassegnato mette mano al portafoglio – sono tanti soldi, ma gli pare poco opportuno e poco elegante protestare. Il signor Rossi, invece, batte con virulenza il pugno sul tavolo, richiamando l'attenzione generale della sala, e va diritto dal proprietario della trattoria a protestare perché il signor Verdi ha pagato troppo poco. Più o meno è quello che sta succedendo in questo Paese. Lo dimostrano i numeri. Secondo i dati della Cgia di Mestre il 49,1% dei contribuenti, praticamente un contribuente su due, si colloca nel primo scaglione di reddito, pagando le tasse su un imponibile inferiore a 15 mila euro. Questa metà del paese paga complessivamente solo il 5,8% del gettito Irpef complessivo ed ogni contribuente in questa fascia versa al fisco in media 414 euro di tasse ogni anno – esattamente quello che paga il signor Rossi. Sulla base degli stessi dati, solo l'1,9% dei contribuenti si qualificano per il quinto scaglione, quello che riguarda i redditi sopra i 75 mila euro. Costoro pagano complessivamente da soli il 24,5% del gettito Irpef nazionale. In media chi, come il signor Verdi, appartenga al quinto scaglione paga al fisco 45.351 euro di Irpef all'anno. La domanda che si pone Faraci quindi è: ma quanto devono pagare di più i ricchi? Oggi i cittadini a più alto reddito, pagano 109 volte le tasse che pagano i "poveri". Per gli stessi servizi pubblici. Anche in presenza di un'eventuale "flat tax", quell'1,9% continuerebbe a pagare più di 50 volte le tasse pagate da quell'altro 49,1% dei contribuenti che oggi dichiara ufficialmente meno di 15 mila euro di reddito lordo. Dal punto di vista dei liberali il «dagli al ricco» significa colpire persone che, in linea di principio, hanno guadagnato di più perché hanno prodotto di più, cioè in definitiva che hanno fatto di più per gli altri – che siano i rispettivi clienti o datori di lavoro. Se questi signori hanno guadagnato molto (e, lo ripetiamo, al netto dei privilegi, di caste e castine) è perché qualcun altro ha valutato che il loro lavoro valesse altrettanto e ha deciso di comprarlo a quel prezzo. Seguendo il ragionamento, e se è vero che l'1,9% dei contribuenti garantisce da solo il 24,5%, il governo farebbe bene a considerare il loro "potenziale contributivo" futuro per il fisco. Perché alte aliquote marginali possono scoraggiare in modo determinante l'attività dei cittadini ad alta produttività, spingendoli a emigrare fisicamente ma anche a spostare legalmente una parte del loro patrimonio oltreconfine. Tornando all'esempio della trattoria, il signor Verdi potrebbe trovare il coraggio di sbattere il pugno sul tavolo e andare dal proprietario ricordandogli che ci sono tanti ristoranti migliori in altri paesi del mondo. Certo, la "parabola" dimentica che l'Irpef è l'unica imposta ad aliquota progressiva e, assieme alle altre imposte dirette, contribuisce a poco più della metà del gettito fiscale complessivo. L'altra metà è data dalle imposte indirette (IVA, accise, bollo,...), la cui incidenza percentuale è maggiore sulle classi di reddito inferiori. Così come esistono redditi molto elevati soggetti a tassazione tramite ritenuta "secca" a titolo d'imposta con aliquote ben inferiori a quelle medie cui sono sottoposti i redditi da lavoro dipendente o autonomo. Ed è comprensibile la rabbia di coloro che quando chiedono tasse più basse si sentono rispondere che non si può perché circa la metà dei contribuenti le evade. Mentre la verità è che la politica non vuole ridurre la spesa pubblica sulla quale campa. Mortificando lo sviluppo. Il punto resta sempre lo stesso: il colpire i ricchi per dare ai poveri è davvero il criterio di equità cui deve aspirare un governo? E chi partecipa alla caccia grossa al paperone non rischia di fare come lo storpio che prega Dio non di guarirlo ma che tutti siano storpi? Nel gioco dei "buoni contro cattivi" viziato anche da una brutta forma di invidia sociale ci si dimentica che il vero problema è politico e si rischiano pericolose derive stataliste. «Che, in una società libera, alcuni diventino ricchi - spiega Kenneth Robert Minogue in uno studio dell'Istituto Bruno Leoni - è ritenuto un problema sociale da risolvere con l'espansione dello Stato. È la brutalità delle buone intenzioni». Dice ancora Minogue: «I Paesi del Vecchio continente sono precipitati in una spirale fatale: alto debito pubblico, declino demografico e un elettorato democratico incline a votare per partiti che cercano di corromperlo con i suoi stessi soldi». Ps. Mentre la crisi fa schizzare la pressione fiscale oltre il 45% e si introducono norme che prevedono la comunicazione all'anagrafe tributaria di tutti i movimenti di tutti i rapporti finanziari di tutti gli Italiani, nonché la natura di reato penale persino per le notizie non rispondenti al vero comunicate dal cittadino in sede di verifica o di risposta a un questionario del fisco, l'Agenzia delle Entrate lunedì si è premurata di farci sapere che, grazie alla collaborazione con il Coni, i fuoriclasse dello sport italiano hanno premiato gli "assi" del Fisco. Quelli che fanno piangere anche i ricchi.

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