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Ai partiti interessa solo il consenso elettorale

Il premier Mario Monti

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Torna a spirare un venticello che porta con sé una rinnovata voglia di elezioni anticipate da svolgersi, presumibilmente, nella primavera prossima. Se ne parla, con atteggiamento complice e movenze da cospiratori, nei corridoi dei palazzi della politica e in conversazioni salottiere. Non basta. I leader stessi dei partiti - pur negando l'intenzione di desiderare le elezioni anticipate per non compromettere di più il paese - si comportano come se fossero già in campagna elettorale. È una situazione paradossale destinata, ove non si corregga la rotta, a rendere sempre più montante l'ondata di antipolitica che sta attraversando l'intero paese. Certo. Un governo del presidente o tecnico o dei professori - lo si chiami come si vuole - non rappresenta il migliore dei mondi politici possibili. Anzi. È un governo frutto della gravità di un particolare momento storico e politico: figlio, si è detto, di uno «stato di eccezione» che ha comportato una forzatura di procedure costituzionali e una «sospensione» della democrazia e dei suoi meccanismi, paradossalmente per difendere e preservare le stesse istituzioni democratiche. È un governo che rappresenta la sconfitta o, se si vuole, la messa in mora della politica. Perché - la verità è proprio questa, pur se non gradevole - un governo del presidente o tecnico nasce dal fallimento dei partiti e dei politici di professione, dalla loro incapacità progettuale, dal loro trasformarsi in «casta» attenta, anziché al bene e agli interessi del paese, al consolidamento di antichi e nuovi privilegi, personali o corporativi. Ebbene, questi partiti e questi professionisti della politica sembrano incapaci di fare un salto di qualità e rendersi conto che non è più il momento di ragionare secondo gli schemi classici di una prassi politico-parlamentare desueta e superata dalle circostanze. Essi hanno mancato storicamente la sfida dell'ammodernamento istituzionale del Paese. Non sono stati in grado, destra e sinistra, di avviare quel grande processo di riforme da tutti riconosciuto come necessario per costruire una democrazia liberale nel senso pieno del termine. Hanno fallito. Miseramente. La seconda repubblica non è riuscita a realizzare una soluzione di continuità rispetto alla prima repubblica. Anzi, ne ha addirittura accentuato taluni difetti, soprattutto nella moralità pubblica e nel progressivo abbandono del rispetto delle istituzioni democratiche e della loro «sacralità». Adesso - anziché fare mea culpa e cogliere l'occasione dell'esistenza di un governo, frutto dello «stato di eccezione», per concordare un piano di riforme istituzionali - tornano a muoversi secondo le regole e la prassi del più deteriore politicantismo da piccolo cabotaggio. Le vicende che stanno accompagnando l'iter di definizione e approvazione della manovra sono lì, davanti agli occhi di tutti, a dimostrarlo: pressioni corporative, veti incrociati, arroccamenti in difesa dei privilegi di casta o corporazione. Non è così che si supera lo «stato di eccezione». Non è così, in altre parole, che la «politica» vera, quella autentica e alta, può riacquistare il primato perduto. Non è così che la classe politica - parlamentari e partiti, locali e nazionali - possono riempire il solco che la separa ormai, in termini di credibilità e di affidabilità, dal paese reale. Anche lo spirare del venticello foriero di voglia di elezioni anticipate è una dimostrazione ulteriore dello stato confusionale e dell'insipienza di chi si mostra convinto che un'interruzione dell'attuale legislatura e un immediato ricorso alle urne possano rappresentare un toccasana per il paese. Che cosa si cela, in realtà, dietro il desiderio di far «saltare il banco» e tornare al voto? Quali sono i disegni e gli interessi? Non è difficile coglierli. In primo luogo, ci sono le preoccupazioni «conservatrici» di chi non vuole la riforma elettorale e teme che ad essa si possa giungere, sia pure surrettiziamente, attraverso lo svolgimento del referendum istituzionale. Tali preoccupazioni attraversano gli schieramenti e riguardano, più che le forze politiche propriamente dette, tutti quei parlamentari, in qualche misura e in qualche modo compromessi, che, con un altro sistema elettorale, rischierebbero di non essere neppure messi in lista o, comunque, di essere penalizzati dal voto. Per costoro, è indispensabile l'obiettivo dell'interruzione della legislatura, destinato a congelare il referendum e ad allontanare il pericolo dell'adozione di un nuovo meccanismo elettorale. Nella peggiore delle ipotesi, potrebbero sempre sperare di essere nuovamente candidati in elezioni da svolgersi con l'attuale sistema elettorale e, quindi, di essere rieletti per un'altra legislatura. In secondo luogo, a spingere verso le elezioni, ci sono gli interessi dei partiti attuali (o di quel che ne resta) a «monetizzare elettoralmente» i sacrifici economici richiesti dalla manovra e le comprensibili reazioni dei cittadini, soprattutto di quella parte di cittadini sulla quale, come sempre, finisce per incidere maggiormente il peso del prelievo fiscale. Altro che preoccupazione per il bene del Paese! Quel che importa è cercare di contenere o conquistare i prevedibili scostamenti, in positivo o in negativo, di consenso elettorale di fronte ai provvedimenti della manovra. I leader degli schieramenti concorrenti si trovano obiettivamente in difficoltà a far digerire al proprio elettorato certe misure. E, del resto, il richiamo alla necessità di sacrifici generalizzati per uscire dal tunnel della crisi funziona fino a un certo punto: addossare al proprio avversario la responsabilità dell'adozione di un provvedimento sgradito od odioso è un gioco che può funzionare solo nel breve periodo. Le spinte per una crisi politica destinata a portare ad elezioni sono consistenti, anche se espresse a voce bassa, e condizionate dall'approssimarsi del «semestre bianco» durante il quale il capo dello Stato non può sciogliere le Camere. Questa circostanza assicura un forte grado di plausibilità allo scenario. La forza di Monti sta nel fatto che nessuno è, oggi, pronto a «staccare la spina»: cosa che dovrebbe spingerlo a muoversi con decisione lungo la strada delle riforme. Basterà? Non è detto. Quel che è certo è che, in caso di elezioni in primavera - in piena crisi economica devastante e con un sistema politico percorso da spinte di destrutturazione e ricomposizione delle forze politiche -, non ci sarà un vincitore. Anzi, avranno perso tutti. A cominciare dall'Italia.

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