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La crisi è di sistema. Cambiamo la Carta

Il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano

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Fra gli effetti del governo tecnico di Mario Monti, se i critici prevenuti non li vogliono chiamare meriti, quali invece sono, c'è l'accresciuta evidenza della «crisi di sistema» che l'ha generato, dopo avere fatto implodere sia la maggioranza sia le opposizioni uscite dalle urne nel 2008. Non passa giorno ormai senza che di crisi di sistema, appunto, non si scriva sui giornali e non si parli nei salotti televisivi e analoghi, dove sino a poco tempo fa si rischiava la deplorazione, o la commiserazione, a sollevare il problema di una modifica non superficiale ma vasta della Costituzione. Della quale il segretario del Pd Pier Luigi Bersani peraltro continua a dire che è «la più bella del mondo», evidentemente compiaciuto delle risorse che ha saputo ricavarne nell'ultima crisi politica con sapiente fermezza il presidente della Repubblica. Ma altrettanto inconsapevole - sempre lui, Bersani - della unicità o, se preferite, della irripetibilità del passaggio politico e istituzionale che si è compiuto nelle scorse settimane. E che è destinato a sfociare nelle elezioni ordinarie del 2013. Allora, fra l'altro, si concluderà anche il mandato di Giorgio Napolitano al Quirinale. Dove, se non si verificherà nella storia della Repubblica l'inedita rielezione del presidente uscente, che sarà nel frattempo arrivato sulla soglia anagrafica degli 88 anni, per quanto portati alla meraviglia, un nuovo capo dello Stato difficilmente sarà nello stesso stato di grazia, cioè di popolarità e gradimento, in cui si trova adesso Napolitano, al quinto anno e mezzo dei sette del suo mandato. Non è per niente scontato che i partiti, per quanto potranno ancora essere malmessi, e l'opinione pubblica si fideranno di un nuovo presidente della Repubblica come si sono fidati e si fidano di quello felicemente in carica, consentendogli la stessa discrezionalità. A complicare le cose è, e prevedibilmente resterà, la maniera di eleggere il capo dello Stato: non diretta, da parte dei cittadini, come sarebbe forse ora di fare, ma indiretta, da parte del Parlamento. Che, già in forte calo di credibilità per la crisi di identità e d'altro tipo ancora dei partiti che vi sono rappresentati, non sembra molto consapevole della necessità e della urgenza di recuperarne, visti i mezzi e mezzucci, per esempio, ai quali ha mostrato di ricorrere proprio in questi giorni per ritardare l'appuntamento già fissato con la riduzione degli emolumenti dei deputati e dei senatori. Eppure è un adempimento di cui è cresciuta l'urgenza nel momento in cui il Paese è stato chiamato a pesanti e immediati sacrifici per fronteggiare la crisi economica. Se è dunque crisi di sistema quella che ha portato ad un governo di tecnici, o all'impressione diffusa di un "commissariamento" della politica, o addirittura di una sua "sospensione", è sul sistema e sulle sue regole che bisogna decidersi finalmente ad intervenire. Se non ora, quando? Senza peraltro cadere nell'errore di escludere il governo dal tavolo di questo lavoro per farlo occupare tutto e solo dai partiti, vista la incapacità da essi dimostrata di volere e saper fare veramente da soli, a cominciare dal fronte economico e finanziario. Di questa incapacità, e del blocco del sistema che ne è derivato, ha finito per fare le spese anche l'unica o maggiore novità che sembrava prodotta dalla cosiddetta Seconda Repubblica: il bipolarismo. Che non è riuscito a convivere a lungo con una Costituzione nata nella logica di un metodo elettorale proporzionale puro, compatibile con il bipolarismo come il diavolo con l'acqua santa, o viceversa.

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