Prove di suicidio elettorale
Se i due maggiori partiti, le cui sigle peraltro già si distinguono solo per una elle, che c'è in quello di centrodestra e manca in quello di centrosinistra, hanno deciso di suicidarsi e di lasciare accalappiare i loro elettorati di opinione da quel furbacchione di Pier Ferdinando Casini, lo dicano apertamente. Non ci facciano perdere, per favore, altro tempo - quello al minuscolo, non il nostro, che è al maiuscolo - e tolgano dall'imbarazzo di una lunga e imprevedibile vigilia elettorale, di circa un anno e mezzo, il capo dello Stato e il presidente del Consiglio. Che proprio a causa del paralizzante scontro fra il Pdl e il Pd, continuato anche di fronte all'aggravamento della crisi economica e finanziaria, hanno dovuto, rispettivamente, promuovere e formare in tutta fretta un governo anomalo di tecnici. E questo, con altrettanta fretta, navigando tra la volatilità dei mercati finanziari e l'impazienza dei soci dell'Unione Europea, ha dovuto varare misure, diciamolo pure, da lacrime e sangue. A nient'altro che a un suicidio annunciato equivale la beffarda pretesa dei due maggiori partiti di indossare come un cappuccio l'ormai sicuro voto di fiducia prima alla Camera e poi al Senato sul pacchetto, anzi sul paccone della manovra economica del governo per "non metterci la faccia", stando alle parole attribuite a Silvio Berlusconi, o per "mettercela il meno possibile", stando a quelle attribuite a certi dirigenti del Pd particolarmente sofferenti. Come se gli elettori, peraltro, fossero tanto sprovveduti da credere a simili espedienti e da prendersela, quando si andrà alle urne per il rinnovo del Parlamento, solo con il povero Monti. Contro cui peraltro non potrebbero neppure votare perché il professore ha già avvertito che al termine del suo attuale mandato di governo ne avrà avuto "abbastanza della politica". E si troverà probabilmente nella situazione, per lui sicuramente più comoda di oggi, di scegliere fra il godimento del laticlavio ottenuto dal capo dello Stato con la nomina a senatore a vita, alla vigilia della chiamata a Palazzo Chigi, e la successione allo stesso capo dello Stato. Il cui settennato scadrà, guarda caso, con la fine ordinaria di questa legislatura, nella primavera del 2013. Quando arriverà il momento delle urne, quelle politiche, non quelle amministrative del 2012, che comunque potranno già lanciare segnali utili, gli elettori irriducibilmente insoddisfatti del rasoio di Monti non si lasceranno di certo imbrogliare da un voto di fiducia apparentemente obbligato e svogliato su queste ed altre misure economiche che dovessero seguire, per non punire il Pdl e il Pd. Gli uni votando magari per la Lega, che per prima ha imboccato la strada dell'opposizione a questo governo, prima ancora di conoscerne i ministri e i provvedimenti, e gli altri scegliendo tra le liste del comico Beppe Grillo, di Nichi Vendola e di Antonio Di Pietro. Al quale sembra che il voto iniziale e sofferto di fiducia a Mario Monti -il voto, diciamo così, di insediamento parlamentare- sia bastato ed avanzato. Ormai "il partito personale di Di Pietro", come lo ha definito ieri sul Riformista Emanuele Macaluso rimproverando giustamente ai compagni del Pds di averlo in qualche modo concepito nel 1997, candidando l'ex magistrato a senatore nel blindatissimo collegio rosso del Mugello, e al Pd di averlo fatto crescere accettandone l'apparentamento nelle elezioni del 2008, riuscirà a scavalcare anche Umberto Bossi e il suo dito medio nell'azione di contrasto al governo e a chi in qualsiasi modo lo sostiene. Lo aiuterà in questa azione persino il suo approccio notoriamente difficile, o disinvolto, alle regole della lingua italiana perché quanti più strafalcioni dirà, tanto più apparirà ruspante. Se gli elettori del Pdl e del Pd irriducibilmente contrari alle misure di Monti, presenti e future, avranno l'imbarazzo della scelta tra Bossi, Di Pietro e Vendola, quelli più consapevoli dell'amara realtà del Paese non gradiranno le finzioni dell'uno e dell'altro. Diffideranno giustamente della loro paradossale richiesta del voto di fiducia per sentirsi non più, ma meno impegnati a sostenere le scelte e l'azione del governo, in un assurdo gioco di specchi rotti. Di fronte al quale rischia di giganteggiare chi come Casini si vanta di sostenere Monti "senza se e senza ma", reclama dalla maggioranza il coraggio di definirsi tale e avverte che il governo non può essere considerato "figlio di nessuno".