Monti come Craxi alla sfida di Maastricht
Maastricht, il nome dell'antica e graziosa città olandese, sulle rive della Mosa, che ha dato il nome al voluminoso trattato sull'Unione Europea, composto di 252 articoli, 17 protocolli e 31 dichiarazioni, è sempre stato un po' duro da pronunciare per noi italiani. E via via più duro anche da digerire, diciamo così, per i richiami che a quella località si fanno, a torto o a ragione, ogni qualvolta il rispetto dell'omonimo trattato obbliga il governo italiano di turno a prendere misure molto impopolari e i cittadini a subirle. È accaduto anche in questi giorni. Accade anche oggi, a vent'anni esatti di distanza dall'apertura, proprio a Maastricht, il 9 dicembre del 1991, del Consiglio Europeo convocato per fare imboccare al trattato l'ultima curva prima del traguardo. Che fu infine tagliato, con la firma dei 12 paesi - allora - dell'Unione Europea, il 7 febbraio del 1992. Presidente del Consiglio in Italia era, con il suo diciassettesimo ed ultimo governo, il democristiano di lunghissimo corso Giulio Andreotti. Che peraltro si era guadagnato circa sei mesi prima, il 1° giugno 1991, l'inattesa nomina a senatore vita per avere «illustrato la Patria per altissimi meriti nel campo sociale, scientifico, artistico e letterario». Così dice l'articolo 59 della Costituzione applicato dall'allora presidente della Repubblica Francesco Cossiga, a dispetto di quanto avrebbero poi pensato i magistrati di Palermo e di Perugia a lungo impegnatisi ad accusare Andreotti, rispettivamente, di mafia e del delitto di Mino Pecorelli, il giornalista ucciso a Roma il 20 marzo 1979. Ministro degli Esteri era il socialista Gianni De Michelis, portato in alto nella politica da Bettino Craxi e destinato pure lui a inciampare, sia pure meno tragicamente, in Tangentopoli con 35 procedimenti giudiziari e due condanne patteggiate. La partecipazione di Andreotti ai negoziati per il trattato di Maastricht fu, al solito, cioè nel suo stile, vigile ma discreta. Più dinamica e visibile fu quella di De Michelis, che finì per apparire anche troppo entusiasta a qualche suo compagno di partito: per esempio, Massimo Pini. Che, forte anche della sua presenza al vertice dell'Iri, accanto all'allora presidente Romano Prodi, forse pensava di intendersi di economia più di De Michelis. E che, a forza di documentarsi su ciò che bolliva nel pentolone di Maastricht, fu colto dal sospetto che l'impresa non fosse poi tanto conveniente, e che comunque si stesse per imporre al nostro Paese un passo al quale non era pronto. Ma forse non lo sarebbe mai stato, per quanta volontà avessimo potuto metterci o avessero potuto imporci i politici, o i tecnici, visto come sta finendo. Non so se Pini ne avesse parlato anche con Prodi, il suo vicino di ufficio all'Iri. Che, reduce da una esperienza di governo molto breve alla guida del Ministero dell'Industria in uno dei governi di Andreotti, sarebbe diventato due volte presidente del Consiglio, nel 1996 e nel 2006, andando a dirigere, fra il primo e il secondo turno di Palazzo Chigi, anche la presidenza della Commissione Europea, a Bruxelles. So però che Pini mise giù degli appunti e li mandò a Craxi perché ci riflettesse sopra, prima di dare l'assenso politico, nella maggioranza di governo, a ciò che si stava per sottoscrivere in Olanda. Avrò forse abusato delle notizie apprese confidenzialmente sull'iniziativa di Pini, ma chiesi una volta a Bettino di parlarmene e di dirmi che cosa ne pensasse. Lui tirò fuori da una pila di libri e fascicoli una cartellina rosa, ne sfogliò il contenuto, mettendo anche in ordine alcuni grafici un po' troppo strapazzati, e guardandomi bene in faccia, come soleva fare quando pensava di doverti dire qualcosa di sgradevole, mi disse che bisognava «firmare» perché «i vincoli esterni ci servono come il pane». Ripeto: «come il pane». «Siamo a questo?», gli chiesi. E lui: «Sì, siamo a questo. I parametri europei potranno aiutarci a sbloccare i veti e le paure che in Italia paralizzano un po' tutti: noi della maggioranza, loro dell'opposizione e i sindacati. Bisogna convenirne. Da soli non ce la facciamo. Prima lo capiamo e meglio è». E ripose la cartellina nella pila da dove l'aveva sfilata. Il discorso si chiuse lì. Penso, a tanti anni di distanza, che a dettargli quel giudizio così netto e deciso fossero stati insieme il passato e il futuro. Nel passato Craxi aveva provato sulla sua pelle di presidente del Consiglio le fatiche del famosissimo decreto legge di San Valentino, del 1984, con il quale aveva osato tagliare alcuni punti della scala mobile per riportare ad una cifra l'inflazione che divorava il valore reale dei salari. La campagna referendaria, pretesa e perduta dal Pci l'anno dopo, aveva dovuto affrontarsela praticamente da solo, peraltro subendo persino il veto anche del principale alleato, la Dc, di andare alla televisione pubblica per difendere la posizione del governo alla vigilia del voto. Egli fu in grado di farlo solo a Canale 5. Nel futuro Craxi vedeva un suo ritorno a Palazzo Chigi dopo le elezioni ormai vicine del 1992, e la possibilità quindi di riprendere in condizioni migliori l'esperienza di presidente del Consiglio interrottagli nel 1987 dall'allora segretario democristiano Ciriaco De Mita. Ma il 17 febbraio di quello sfortunato '92, dieci giorni esatti dopo la firma del trattato europeo di Maastricht, sarebbe stato arrestato a Milano per tangenti Mario Chiesa. E sarebbe seguito il ciclone, giudiziario e politico, di «Mani pulite».