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Se vuole salvare il Paese il prof riparta dal lavoro

Un lavoratore metalmeccanico in una fabbrica.

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Come documenta Il Tempo, la pressione fiscale potrebbe raggiungere in due anni il 47% del Pil. Livelli da Scandinavia, senza i suoi servizi e struttura economica. Ciò che è peggio, non si tratta solo del salasso sulle case o al distributore di benzina. Nel 2012 l'aumento del prodotto al lordo dell'inflazione dovrebbe ridursi all'1%. Nel 2013 e 2014 al due. Ma stiamo già combattendo con un'impennata di prezzi ben superiore al 3%, che il rincaro dei carburanti e quello annunciato dell'Iva peggiorerà. Una mano potrà darla la riduzione dei tassi della Bce: ma non aspettiamoci miracoli dall'Europa. Di conseguenza la nostra crescita reale rischia di essere negativa per tutto il triennio: una recessione più lunga e dura di quella seguita alla crisi del 2008. Stavolta infatti non sarà di natura finanziaria, ma colpirà nel vivo il lavoro, le famiglie, le abitudini di vita. Combinata con l'austerity si tratta di un impoverimento netto che non possiamo sostenere. Non solo perché staremo peggio, ma perché rischia di riportarci nel precipizio dal quale Mario Monti è stato incaricato di salvarci: il default. Il meccanismo è noto: il rigore sui conti provoca il calo del Pil. Il rapporto quindi non cambia e si deve rimettere mano a un'altra manovra. E così via. Non solo ci schianterebbe, ma produrrebbe l'ennesimo downgrading del rating, un'altra crisi europea, la sfiducia sui titoli pubblici: il rewind degli ultimi mesi, aggravato dal tempo e dalle risorse bruciate. Più banalmente, il cane che si morde la coda. Ieri ne abbiamo avute alcune avvisaglie: lo spread Btp-Bund è tornato a quota 400. Lontani certo dai famigerati 575 del 9 novembre, però ci siamo mangiati parte dell'effetto-manovra. Contemporaneamente, all'avvio del doppio summit di Bruxelles, è tornato sull'Europa il pessimismo. Che solo un'azione convincente, in queste ore, di governi, Bce e Casa Bianca può spazzare via. Dunque è indispensabile tornare a noi, e concentrarci, dopo il rigore, sulla crescita. È vero, come diceva Tremonti, che il Pil non si crea per decreto. Ma è altrettanto vero che mai come adesso un governo è nella condizione di fare tanto dovendo rispondere a pochi, se non al Paese. Mario Monti ha dimostrato che cosa significa guidare un esecutivo con il triplo beneficio di essere emanazione del Quirinale, di carattere tecnico, e senza interessi elettorali. Trattative al minimo con i partiti, zero concertazione con i sindacati. Sarà bene che non disperda l'abbrivio nell'affrontare la fase dello sviluppo. Fondamentale è la riforma dei contratti di lavoro. La strada è già indicata dalla Bce, dalla Ue e anche dal governo Berlusconi. Come Monti ha brillantemente spiegato si tratta di sostituire al concetto di “posto” quello di “lavoro”. In pratica tutti i contratti devono essere a tempo indeterminato, eliminando il precariato a oltranza per giovani e donne, e le garanzie inviolabili di chi ha il posto fisso. Al tempo stesso i lavoratori devono essere licenziabili, non per capriccio del padrone ma per quelle che ovunque si chiamano cause economiche: produttività, stato aziendale. Ciò comporta la sostituzione della cassa integrazione con il sussidio attivo di disoccupazione: tre anni di stipendio con l'obbligo di valutare e infine accettare altre offerte. In alternativa, una buonuscita cash di pari importo. Questo è lo schema, certo da affinare assieme ai sindacati, ma non sotto la loro dettatura. Teniamo presente che è quanto Gerhard Schroeder, alla guida di un governo socialdemocratico-verde, ha fatto in Germania, la culla dello stato sociale. Gli altri due fronti si chiamano opere pubbliche e privatizzazioni. Passera è forse il migliore esperto italiano di project financing. E' stato protagonista di operazioni discusse, come l'Alitalia, o di successo, come le autostrade: mai però si è fermato alle chiacchiere. Riaprire i cantieri serve al Paese e serve al lavoro. Di più: può far tornare gli investitori stranieri, che non si capacitano di come la Fiat di Melfi sia stata costruita in mezzo al deserto, o il porto ex gioiello di Gioia Tauro sia ormai un avamposto inaccessibile e rischioso. Infine le privatizzazioni. Scartando anche per motivi di mercato asset (strategici) come Enel ed Eni, il Tesoro ha altre risorse per abbattere il debito. Franco Debenedetti ha citato l'Enav e la Sogei: noi pensiamo che non si debba affidare a mani private o straniere il traffico aereo e l'anagrafe tributaria. Caso mai si tratta di ripulirli da scandali e inefficienze. Ma perché non privatizzare Banco Posta, Ferrovie, almeno una rete Rai? E l'immenso giacimento delle municipalizzate? Si toccano interessi ed equilibri? Osi, professor Monti, osi.

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