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A quest'Europa manca il coraggo dei visionari

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Tutta colpa della perfida Albione? L'unione europea ha impiegato un giorno e una notte per rompere furiosamente con David Cameron. Alla fine il premier inglese ha sbattuto la porta; mentre gli altri 26 capi di governo si sono presi un bel rinvio fino a marzo 2012. Ma non doveva essere quello di Bruxelles il summit decisivo, l'ultima spiaggia per salvare l'euro e dotare la Bce di capitali e strumenti per difendere la moneta unica? Contrordine. Come ieri ha scritto Mario Sechi, l'Occidente non perde ormai occasione per lacerarsi al proprio interno. Dalla fine della Seconda Guerra mondiale ci avevano unito la Guerra Fredda e la ricostruzione; quindi l'interesse comune ad edificare un modello sociale che conciliasse il capitalismo con la redistribuzione a favore delle classi meno abbienti; poi la stagione della libertà dei commerci mondiali, da cui è scaturita la globalizzazione, con i suoi problemi e le sue enormi potenzialità. Sconfitto il comunismo, noi occidentali abbiamo individuato altre frontiere nella new economy, nella big society americana (sia in versione clintoniana sia repubblicana), e nel progetto di un'Europa che diventasse il secondo motore finanziario, valutario e sociale del mondo, in grado di confrontarsi alla pari con l'area del dollaro e con le economie più che emerse, dalla Cina al Brasile passando per l'India e la Russia. Nelle varie fasi abbiamo avuto leader come Konrad Adenauer, Robert Schuman e Alcide De Gasperi prima; poi come Ronald Reagan, Margaret Thatcher, Helmut Schmidt (e, per parte nostra, Bettino Craxi); quindi come Bill Clinton, George H. Bush e Tony Blair; e ancora Helmut Kohl e Francois Mitterrand; infine George W. Bush, Jozé Aznar e, sì, il Silvio Berlusconi degli anni migliori. Che cos'hanno avuto in comune questi diversissimi personaggi? Soprattutto una cosa: il coraggio. Che, tra aspri contrasti – basta pensare all'uscita della Francia dal dispositivo militare Nato decisa da Charles De Gaulle – ha sempre permesso all'Occidente di guardare avanti. Mai di chiudersi in se stesso. Commettendo errori, spesso. Ma sempre mirando a un obiettivo: accrescere il benessere, la libertà e i diritti. Dov'è finita questa visione? E dove sono i visionari? L'Occidente è in pieno declino di leadership, in crisi totale su cosa fare e come farlo. Gli Usa ed il dollaro non sono più, da tempo, la potenza assoluta. La Gran Bretagna di David Cameron ha individuato nella finanza la propria vocazione, e può darsi che i fatti le diano ragione. E noi europei? L'euro, osservano alcuni, era un bellissimo fiore che tuttavia non è mai sbocciato. Come valuta dell'area se non militarmente, almeno economicamente e socialmente più evoluta e stabile del mondo, doveva fecondare le altre economie, e far bella mostra di sé a tutte le latitudini. Al contrario si è trasformato in un cactus. Al posto dei petali sono spuntate le spine, il profumo non c'è mai stato; accattivante in apparenza, è pericoloso, fragilissimo e rischia di far morire la pianta che lo genera. Può andar bene nel deserto e nelle serre, non nella parte di mondo più popolosa, colta e vivace. Questa mutazione genetica non è stata prodotta da scienziati pazzi, ma da politici deboli e ripiegati sui loro interessi e paure. Angela Merkel, Nicolas Sarkozy, e senza offesa lo stesso Mario Monti, non evocano sogni, traguardi da raggiungere; ma target di bilancio da non sforare, pena severe punizioni. L'obiettivo non è il benessere, e forse neppure il progresso: li abbiamo scambiati con un gigantesco libro contabile. Gli europei, che grazie all'euro avrebbero dovuto essere più ricchi, più sicuri, più liberi, sono oggi più poveri, insicuri e meno liberi di dieci anni fa. La cessione di sovranità non ha avuto per contropartita una società migliore, più equità, lavoro e garanzie: ci siamo uniformati sì, ma al ribasso. Abbiamo giustamente accantonato tutele e armamentari sociali non più attuali; ma questo non è avvenuto – se non a parole – in cambio di un'economia più dinamica, di una maggiore concorrenza, di migliori opportunità per i giovani e le donne. Gli Stati Uniti, con tutti i loro problemi, nel 1787 hanno inserito nella Costituzione un concetto come la felicità, e si sono posti come missione storica di dare a tutti una chance. Spesso hanno ecceduto, cercando di esportare la democrazia a dispetto degli interessati. All'interno, le bolle e le crisi finanziarie hanno continuamente generato virus e anticorpi. Ma era e resta, pur nel suo momento più basso, un paese che muta e sorprende. Strategicamente l'Europa si sta condannando all'immobilismo, al rinvio e quindi al declino. Le sue regole sembrano concepite per bloccare, non per liberare. L'area dell'euro sarà quella che nei prossimi tre anni crescerà meno: secondo Eurostat se andrà bene avremo un più 0,3 per cento di Pil nel 2012 per 330 milioni di persone, abituate ai consumi di massa ma schiacciate da una pressione fiscale in costante aumento. E con un rischio di credit crunch contro il quale neppure questo ultimo summit ha messo in campo le contromisure e le idee annunciate. L'eurozona dovrà confrontarsi non solo con gli Usa e la Gran Bretagna, ma con le nuove potenze: 2,8 miliardi di persone per limitarsi a Cina, Russia, India e Brasile, che pur fra rischi e contraddizioni crescono a ritmi medi del 6 per cento, detengono il 70 per cento delle risorse naturali mondiali, e ormai circa la metà di quelle finanziarie. Questa però è la situazione ad oggi, visto che entro il 2020 la Cina dovrebbe avere scavalcato gli Stati Uniti nella produzione di ricchezza, la Russia la Germania, l'India la Francia e il Brasile l'Italia. Se la grande partita sarà tra Cina e Usa, tra Occidente ed nuove economie, non si vede quale ruolo possa giocare un'Europa che si è autocondannata a percentuali ragionieresche da zero virgola. Anche perché il rigore genera compromessi al ribasso o nasconde interessi nazionali che rimandano ad un passato poco rassicurante. La società anglosassone è per sua definizione imperfetta, e tuttavia ha sempre sconfitto le dittature. Il marmoreo dirigismo imposto dalla Merkel rischia di far passare un altro principio: quello di misurare la democrazia con il solo metro del debito. Più debito, meno diritti. Ricorda nulla?

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