La festa del Pd è finita troppo presto
Da domani il capogruppo del Pd alla Camera Dario Franceschini non potrà più invitare i suoi compagni di partito, quando tornerà ad incontrarne con l’aria delusa e preoccupata, a festeggiare «piuttosto la vittoria», come ha fatto nelle scorse settimane, per essersi finalmente «liberati» dell’odiato governo di Silvio Berlusconi. Del resto, già prima di andare ieri sera dal nuovo presidente del Consiglio con lo stesso Franceschini per sentirsi illustrare le misure economiche in arrivo, il segretario Pier Luigi Bersani aveva avvertito che «il Pd non canterà vittoria». Di «festa guastata» ha infine parlato ieri la segretaria generale della Cgil Susanna Camusso, portandosi ogni tanto le mani fra i capelli, non credo solo per vezzo femminile, di fronte ai delegati sindacali accorsi attorno a lei con le solite bandiere e fazzoletti rossi al collo anche per festeggiare, pure loro, la caduta del Cavaliere. È una caduta, quella dell'ultimo governo Berlusconi, destinata a costare moltissimo, sul piano politico, alla sinistra: molto più di quanto potrà costare -e costerà meritatamente- anche al centrodestra, che ha fatto dopo le elezioni stravinte nel 2008 tutto, ma proprio tutto quello che era necessario per dividersi, per rivelarsi inadeguato alla crisi economica, anche quando non era più decentemente possibile ignorarla o sottovalutarne le dimensioni, e infine per sciogliersi. Che è un termine certamente sgradito a Berlusconi e a chi ama assecondarlo anche negli errori o nelle illusioni, magari per continuare a sfruttarne sul piano personale la ben nota generosità, ma non è contestabile di fronte alle crescenti distanze fra il Pdl e la Lega. Il cui leader Umberto Bossi, incalzato sulla strada dell'opposizione dai suoi ufficiali e sottufficiali, non sembra più in grado neppure di accettare i calorosi inviti conviviali del Cavaliere, peraltro imprudentemente annunciati in pubblico con troppo anticipo. Ma torniamo alla sinistra e alla paradossale situazione in cui si trova, di parte politica cioè maggiormente danneggiata dalla caduta di Berlusconi, dalle cui difficoltà invece avrebbe dovuto o potuto trarre i maggiori vantaggi se non avesse compiuto ancora più errori del suo avversario e non si fosse cacciata non in quella che Bersani ha definito «una strada stretta», ma in un vero e proprio vicolo cieco. Dove ormai, per quanto vorrà agitarsi, o fingere di farlo, non potrà sottrarsi all'obbligo di appoggiare o lasciar passare una serie di misure destinate a dividere il Pd, a separarlo da buona parte della sua stessa base elettorale e a disarticolare i suoi progetti, già contraddittori, di alleanza con Nichi Vendola e Antonio Di Pietro da una parte e con il terzo polo di Pier Ferdinando Casini, Gianfranco Fini e Francesco Rutelli dall'altra. Accecati da un antiberlusconismo spietato, che li ha indotti a cavalcare di tutto, dai tribunali ai mercati, anche quando negli uni e negli altri si spacciava merce sfacciatamente contraffatta contro il nemico, Bersani e i suoi compagni di varia provenienza e natura, o "anima", si sono fatti scappare tutte le occasioni di un gioco pulito e per essi - ripeto - vantaggioso offerto loro da Giorgio Napolitano. Che anche la stampa americana comincia a chiamare simpaticamente «Re Giorgio», come ha fatto ieri il New York Times sottolineandone il ruolo prevalente e meritorio che svolge da tempo al vertice di quella che è e rimane naturalmente una Repubblica. Di questo assai e felicemente singolare capo dello Stato, per fortuna preferito a Massimo D'Alema nel 2006 per la successione a Carlo Azeglio Ciampi al Quirinale, Bersani e gli altri ex o post-comunisti che controllano il Pd avevano tutti i motivi per fidarsi: la funzione presidenziale, le comuni origini politiche e un'età, oltre che uno stile, incompatibile con nuove ambizioni di carriera. Alle prime avvisaglie di aggravamento della crisi economica e finanziaria, quando ancora Berlusconi a Palazzo Chigi mostrava troppo ottimismo ritenendo, a torto o a ragione, che vi fosse tenuto anche per non peggiorare la situazione, il presidente della Repubblica moltiplicò i suoi appelli alla «coesione nazionale», alle «larghe intese» e alle «condivisioni». Destinatari di quegli appelli erano naturalmente tanto il governo quanto le opposizioni. Ma dalle parti di queste ultime solo Casini mostrò per un po' di dare ascolto, sino a quando l'arrivo nel suo Terzo polo di uno scalpitante e rancoroso Gianfranco Fini non spinse pure lui a voltare la testa dall'altra parte. Pur costretto in qualche modo da un sempre più giustamente preoccupato presidente della Repubblica a rinunciare alle tentazioni ostruzionistiche contro le manovre estive adottate dal governo per fronteggiare le turbolenze dei mercati e soddisfare le richieste dell'Unione Europea per il risanamento dei conti, il Pd ha sempre perseguito come obbiettivo principale la crisi di governo. Sino a valutarne cervelloticamente gli effetti salvifici in cento, duecento, trecento punti di spread: il mostro che incute timore ormai anche ai comici. Sono state sostanzialmente apprezzate persino le disinvolture, chiamiamole così, di Sarkozy e della Merkel sottovalutandone i guasti che procuravano non solo all'Italia ma a tutta la cosiddetta eurozona. Piuttosto che assecondare gli appelli di Napolitano alla coesione nazionale aprendo una trattativa con il governo per le misure economiche da adottare, e magari profittare della oggettiva e crescente debolezza politica dell'allora maggioranza di centrodestra per mettere a punto una terapia meno indigesta alla sinistra, alla Cgil e agli altri sindacati, il Pd ha preferito la strada delle pregiudiziali politiche contro il presidente del Consiglio. Lo ha fatto dividendosi al suo interno solo sulla prospettiva di un governo tecnico o di un ricorso alle elezioni anticipate. Quando queste ultime sono diventate troppo rischiose per il contesto ormai nevrotico dei mercati, prontamente avvertito dal capo dello Stato e infine anche dal Cavaliere, Bersani e compagni si sono trovati praticamente inchiodati alla soluzione del governo tecnico, prima scambiandola per una vittoria, e difendendo cortei e piazze scomposte dalle critiche e preoccupazioni altrui, e poi scoprendone e provandone i pesanti effetti politici. Se la sono cercata. E sono soltanto agli inizi.