La diversa visione inglese Le imprese prima di tutto
{{IMG_SX}}Sir Mervyn Allister King è un 63enne gentiluomo inglese come ce lo figuriamo dai film anni Sessanta: capelli bianchi, una passione per le scarpe John Lobb e un’altra attualmente non molto ripagata per l’Aston Villa, è il perfetto alto funzionario di Sua Maestà immortalato dai film di James Bond. Soprattutto però è il governatore della Bank of England, altra istituzione già imperiale nota come "The old lady of Threadneedle Street", il suo indirizzo nella vecchia city. Personalità, inoltre, eterodossa e per nulla conformista: fautore prima della linea de tassi alti contro l'inflazione, quindi in controtendenza rispetto a questa tradizionale dottrina anglosassone, si è poi convertito all'economia espansiva del collega ex presidente della Fed, Alan Greenspan, del quale divenne il migliore alleato nella business community internazionale. Un asse al quale venne imputata la bolla immobiliare che ha messo alle corde gli Usa, e in misura minore la Gran Bretagna. Né è rimasto indenne dai famosi files di Wikileaks, nei quali appoggiava i tagli al welfare decisi dal premier conservatore David Cameron. Totalmente scagionato, ha quindi fatto autocritica sui profitti delle banche e la "maggiore moralità" dell'economia reale su quella di carta. Cosa che non gli ha impedito di avallare la nazionalizzazione della Northern Rock, da lui attribuita alle pressioni del suo nemico giurato Alistair Darling, cancelliere dello scacchiere del governo laburista di Gordon Brown. Ed ancora di dichiarare al Parlamento europeo che la Bce avrebbe fatto sì da prestatore di ultima istanza come si chiede alla Bce, ma senza il "moral hazard" di mettere a repentaglio le sterline dei contribuenti britannici. Tutto questo per dire che Sir Mervyn si definisce oggi "open minded": uno che guarda ai fatti e non ai dogmi. Altro dettaglio, è il primo governatore ad avere non solo accesso abituale al numero 10 di Downing Streed, ma anche, talvolta, a Bukingham Palace, allo studio della Regina. Con questi endorsement, ieri King ha annunciato che la BoE sta mettendo a punto un piano per fronteggiare un possibile default dell'euro, e gli inglesi non devono quindi farsi cogliere impreparati. Il punto di partenza è: «I governi europei non hanno ancora affrontate le cause scatenanti della crisi, e non possono certo essere le autorità nazionali a risolvere problemi più vasti». E aggiunge: «Il clima economico è eccezionalmente minaccioso. Le nostre banche devono immaginare al più presto l'eventualità di un crollo dell'eurozona e nei prossimi mesi aumentare le riserve, tagliare dividendi e bonus e prendere in considerazione nuove ricapitalizzazioni. L'austerità non dovrà infatti rivolgersi stavolta contro le imprese, perché è essenziale il rilancio dell'economia reale». Una previsione che può essere condivisa oppure no, ma presenta una novità: come analisi va controcorrente rispetto al mood imperante tra Berlino e Parigi, quello dei direttori e dei compiti a casa. «La crisi non è tanto di liquidità, ma di solvibilità complessiva» spiega infatti Sir Mervyn. E, soprattutto, i governi ne avrebbero finora affrontato le cause, ma non ancora gli effetti. Su questo, se anche (come ci auguriamo) il numero uno della Bank of England si sbagliasse, è difficile dargli torto. Certo, al vostro Marlowe vengono in mente due chiacchiere scambiate pochi mesi fa con un money maker londinese in una di quelle ineguagliabili clubhouse di Pall Mall. Il nostro interlocutore chiese: «Perché esiste la Danimarca, uno stato minuscolo, senza economia propria né frontiere naturali?» Stupore. «Semplice. La Gran Bretagna ha sempre avuto bisogno sul continente di qualcuno e qualcosa che ne impedisse l'unità. Infatti la Danimarca si è sempre rifiutata di entrare nell'euro, esattamente come noi». Fin qui sembrerebbe un po' la vecchia battuta british "nebbia sulla Manica, Europa isolata", oggi più modernamente declinata nell'euroscetticismo. In realtà non bisogna trascurare che questa visione strategica, combinata fin dai tempi dell'Impero con un innato pragmatismo, ha permesso agli inglesi di resistere soli contro tutti a Napoleone, e poi a Hitler. E a tutti quelli che nei secoli precedenti hanno cercato di avventurarsi in Britannia. Mervyn King non è il solo a immaginare le conseguenze del default dell'euro. Uno degli ultimi report pubblicato in questi giorni è di Jean-Pisani Ferry, capo del think tank Bruegel. Egli immagina un crollo commerciale della Germania, a causa del fatto che Berlino ha nella moneta unica asset per 6 mila miliardi. Mentre la Bertelsmann Stiftung, la più grande e internazionalizzata fondazione non profit europea di studi economici, individua in caso di crollo della moneta unica, un finale da incubo per tutti: svalutazione del 60% dei paesi deboli, Italia inclusa, alla quali la Germania risponderebbe con una politica di dazi equivalenti. Tutto ciò costerebbe nell'immediato a noi ed agli altri del Club Med tra i 9 e gli 11 mila euro a testa, ed ai tedeschi tra i 6 e gli 8 mila. Perdite di patrimonio e reddito che durerebbero ancora molti anni. Eppure è ancora di oggi l'indiscrezione che la Bundesbank avrebbero segretamente commissionato ad un istituto specializzato basato in Svizzera la stampa di nuovi marchi. Un banale gossip? O qualcosa di più concreto? Oppure, come affermano gli inglesi, meglio predisporre i sacchetti di sabbia?