Il gradimento non è la "forza"
Il governo guidato da Mario Monti, il governo tecnico di emergenza creato per salvare l'Italia dal baratro, ha fatto registrare un forte indice di consenso molto diffuso. E questo consenso non è dato tanto dai voti raccolti in Parlamento dopo la presentazione alle Camere, quanto piuttosto dalle rilevazioni che ne misurano l'indice di gradimento nel Paese. Ma l'indice di gradimento – è bene ricordarlo – è un dato suscettibile di cambiare anche rapidamente se i primi atti del governo non sono congruenti con le aspettative. In altre parole l'elevato indice di gradimento corrisponde a un elevato livello di speranza nelle capacità della compagine governativa di saper intervenire adeguatamente per risolvere i problemi del paese. Sempre, quando si insedia, dopo una difficile crisi politica, un nuovo governo inizia una fase di «luna di miele» con l'opinione pubblica: una fase destinata a durare più o meno a lungo. Accadde già con Silvio Berlusconi, il quale, forte di un carisma personale e del fascino del programma di «rivoluzione liberale», fece registrare livelli di gradimento quali non si erano mai visti nella storia dell'Italia democratica. E si sa come è andata a finire quando alla scoperta amara della mancata realizzazione della «rivoluzione liberale» si sono aggiunte la crisi internazionale, l'intensificazione degli attacchi giudiziari al premier, la speculazione economica, l'offensiva finanziaria contro l'euro, l'abdicazione e la sconfitta della politica. Il governo Monti è nato soprattutto dalla crisi di fiducia nei confronti di un centrodestra che sembrava aver tradito le promesse elettorali e di un premier che si presentava appannato nella sua credibilità internazionale e perciò inadatto a gestire una situazione di eccezionalità. Ed anche, si potrebbe aggiungere, dalla crisi di fiducia nei confronti della politica e dei suoi bizantinismi. Sta qui, soltanto qui, la vera spiegazione del «consenso» al governo Monti voluto con forza (e anche con qualche «forzatura» procedurale) dal presidente della Repubblica. Un «consenso» che, nelle aule parlamentari, è frutto della disperazione di forze politiche in crisi o allo sbando e, nel Paese, è risultato del disgusto per la politica e della speranza (o illusione) che fuori della politica, in una dimensione tecnica, sia possibile rintracciare la strada per salvare il Paese. Se questa analisi è vera, allora si comprende come e perché, al di là delle apparenze e dei numeri, il governo Monti rischi di non essere poi tanto robusto quanto si vorrebbe: non in Parlamento e neppure, cosa ben più grave, nel Paese. Chi, soprattutto nell'universo politico moderato del centrodestra, ha guardato con attesa, più o meno fiduciosa, la creazione di questo «governo tecnico» – magari mettendo la sordina alla propria convinzione dell'esattezza delle argomentazioni di un Benedetto Croce e di un Luigi Einaudi nei riguardi dei governi tecnici o dei tecnici al governo – si è presto trovato di fronte a motivi che inducono perplessità o diffidenza o delusione. Ciò non riguarda, a dire il vero, la squadra dei ministri. Essa è certamente buona: anche se qualche situazione di conflitto di interesse avrebbe potuto (e dovuto) essere sanata immediatamente, come per esempio il fatto che il ministro dell'Istruzione e della ricerca sia al tempo stesso presidente di un ente pubblico, il Cnr, controllato dallo stesso ministero del quale è a capo. La preoccupazione riguarda soprattutto altri fatti, che segnano le prime settimane di vita del governo. A cominciare dalla lentezza con la quale si sta procedendo alla redazione delle misure economiche aggiuntive. Può darsi, ed è probabile, che non già di lentezza si tratti ma di cautela perché i partiti che sostengono il governo sono comprensibilmente divisi di fronte alle ricette economiche da adottare, alle «lacrime e sangue» da chiedere ai cittadini. Tuttavia la cautela nei confronti delle forze politiche e dei loro equilibri è proprio ciò di cui un governo tecnico dovrebbe fare a meno e della quale il cittadino comune che ha dato una delega di fiducia all'esecutivo non avverte il bisogno. E, allora, non è davvero un buon segnale, per l'immagine e la popolarità del governo, il fatto che il consiglio dei Ministri di ieri si sia chiuso con un nulla di fatto e con un rinvio: una riunione del genere, infatti, priva di conclusioni concrete, ha avallato l'impressione, giusta o sbagliata che sia, che il consiglio dei Ministri sia stato convocato non per assumere decisioni ma al solo scopo di essere informato di quanto sottoposto dal nostro premier a Sarkozy e alla Merkel in occasione dell'incontro a tre di Strasburgo. Una impressione, questa, che è stata avallata sia dalla spregiudicatezza della Merkel, la quale ha definito «impressionanti» le riforme prospettate dal premier italiano, sia dall'infelice frase dello stesso Monti quando ha promesso che «l'Italia farà i compiti a casa». Non è la strada migliore per consolidare l'immagine del governo. Non costituiscono neppure un buon segnale, poi, le voci ricorrenti sulla possibilità che i più spinosi provvedimenti economici e finanziari, dalla reintroduzione dell'Ici agli interventi sul sistema pensionistico, vengano varati dal governo, di volta in volta, con l'astensione del Pdl o del Pd a seconda che possano risultare più o meno graditi alle rispettive basi elettorali e possano essere «monetizzati» in termini di voti. Sarebbe la dimostrazione, una dimostrazione ulteriore e incontrovertibile, che i partiti non si preoccupano del bene del Paese o, se si preferisce, dell'«interesse nazionale» ma solo dei propri interessi particolari, cercando di precostituirsi alibi da presentare ai propri elettori o predisporre argomenti polemici nei confronti degli avversari. Il passaggio dei provvedimenti economici con questa modalità sarebbe, insomma, la fiera dell'ipocrisia. Altro che la condivisione auspicata dal capo dello Stato! Ma c'è di più. C'è una partita importante sulla quale il presidente del Consiglio rischia di giocare la propria credibilità: la nomina dei sottosegretari. È necessario procedere, senza lentezza, al completamento della squadra di governo, evitando la logica da «manuale Cencelli» di lottizzare gli incarichi fra i partiti. Gli italiani non la comprenderebbero, questa logica. E l'indice di gradimento di Monti e del suo governo potrebbe risentirne.