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Il Pdl e la sua anima perduta

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Se il Partito Democratico, uscito dalle urne nel 2008 come il maggiore dell'opposizione, piange nonostante la caduta dell'odiatissimo governo di Silvio Berlusconi, temendo l'impopolarità delle misure economiche del nuovo governo che sarà costretto a sostenere, il Popolo della Libertà non ride. Eppure avrebbe qualche ragione per farlo, viste le difficoltà del principale avversario. Che con le dimissioni del Cavaliere da presidente del Consiglio ha perduto il principale, se non l'unico, collante delle sue varie componenti: tanto varie da farne un partito "senza anima", come scrive, sconsolato, ogni volta che ne ha l'occasione sul suo "Il Riformista" l'insospettabile Emanuele Macaluso, sottrattosi proprio per questo alla tentazione, se mai l'ha avuta, di seguire nella loro nuova avventura politica i suoi vecchi compagni del Pci. Il Pdl non ride solo in apparenza perché il trauma della caduta del suo fondatore e leader carismatico è superiore al sollievo che possono procurargli le difficoltà del Pd. Esso soffre, in alcune parti addirittura inconsapevolmente, del rischio di ritrovarsi, con l'obbiettivo indebolimento del Cavaliere, nelle stesse condizioni dell'antagonista: quelle cioè di un partito anch'esso "senza anima". Un partito che nacque per diventare "liberale di massa", come annunciarono Antonio Martino e Giuliano Urbani, ma di massa è riuscito a raggiungere e a conservare sinora solo le dimensioni elettorali. Per il resto il Pdl si è scoperto, per esempio con le polemiche estive sulle due insufficienti e contraddittorie manovre economiche e finanziarie adottate sotto l'incalzare della crisi monetaria europea, né liberale né socialista. E neppure liberalsocialista, come speravano e forse sperano ancora i tanti socialisti riformisti che vi approdarono dopo il naufragio giudiziario del Psi craxiano e che ne hanno illuminato spesso, con la sola deludente eccezione di Giulio Tremonti, l'azione di governo. Ma neppure popolare, nel senso di cultura e provenienza prevalentemente cattolica, come lo sono i partiti aderenti, al pari del Pdl, e dell'Udc, al Partito Popolare Europeo. A parlare bene dei democristiani, come dei socialisti, si rischia nel partito berlusconiano di essere guardati male. Ma anche a parlare bene dei liberali si rischia di essere guardati con una certa commiserazione, tanto abusato e perciò generico è diventato il termine "liberale", a destra e a sinistra. Ma allora che cosa dovrà diventare il Pdl per non essere davvero e solo, come ormai non può più continuare ad essere, anche per ragioni fisiologiche, solo il partito di Berlusconi? Che cosa finirà per essere, o per scoprirsi, dopo l'attraversamento di quel deserto politico che in qualche modo ha prodotto il governo dei tecnici presieduto dal professore Mario Monti e sostenuto da una maggioranza di tregua così larga, così composita, così obbligata da non poter essere forse neppure considerata una maggioranza vera e propria? Una maggioranza tanto straordinaria, in un contesto altrettanto straordinario come la crisi monetaria e politica dell'Unione Europea, che spaventa la sola idea ch'essa possa sfasciarsi e dissolversi anzitempo, prima che abbia avviato davvero il risanamento economico del Paese e consentito ai partiti maggiori di trovare o ritrovare finalmente la loro "anima" per misurarsi di nuovo nelle urne. Trovare o ritrovare un'anima è l'impresa difficile, se non disperata, che accomuna Pd e Pdl. E dalla quale non può considerarsi estraneo neppure il terzo polo di Pier Ferdinando Casini, a dispetto della baldanza che ostenta. E' un'impresa che ritengo peraltro destinata a confliggere con i tentativi di salvaguardare a priori le alleanze politiche coltivate sinora: con la Lega per il Pdl e con Nichi Vendola e Antonio Di Pietro per il Pd.  

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