Berlusconi: "Non regaliamo il prof. alla sinistra"
Il governo parte da Ici e pensioni
L'avviso ai naviganti arriva a fine mattinata. Angelino Alfano manda un messaggio al convegno dei socialisti riformisti a Milano. E mette in chiaro qual è la linea del Pdl: «Diciamolo chiaramente - sostiene il segretario del partito nella lettera che è stata letta durante il convegno e distribuita ai giornalisti - se oggi è nato il governo Monti ciò è stato consentito da Silvio Berlusconi, se Berlusconi non fosse stato d'accordo il governo Monti non si sarebbe fatto. Di conseguenza, noi daremo un sostegno leale al nuovo governo confrontandoci in modo serio in Parlamento sul terreno dei contenuti». Poche frasi che hanno un segnale chiaro: non regaliamo Monti alla sinistra. Non ne facciamo un nuovo Dini. Perché il segretario del Pdl è costretto a fare questo chiarimento? Perché le resistenze sono tante. Ci sono gli ex An, che vivacemente lo hanno criticato in aula prima del voto sulla fiducia a Monti. Fabio Rampelli e Marco Marsilio, che erano stati alla testa della manifestazione di piazza pro-Silvio il giorno dopo le dimissioni. Mario Landolfi, ex ministro. Ma più di tutti Alfano è rimasto colpito da Giorgia Meloni. Perché i due hanno sempre avuto un certo feeling. Assieme avevano anche costituito una fondazione, Italia per i popoli e le libertà; ora hanno visioni diverse in un momento delicato. La questione non riguarda solo gli ex An. Sarebbe riduttivo vederla così. Ci sono le resistenze di Antonio Martino, un forzista della prima ora. Oppure di Maurizio Sacconi. O di Gianfranco Rotondi. «Capisco tutti - insiste Maurizio Gasparri che risponde, insolitamente per lui, da casa a metà pomeriggio -, anche io ho avuto delle resistenze, dei dubbi. Adesso però il partito ha deciso così e ora dobbiamo sostenere Monti. Tenendo una cosa ben chiara: Napolitano ci ha sempre detto che o c'era il Pdl o il nuovo governo non si poteva fare». E cioé? «Cioé anche con 380 voti Monti non sarebbe potuto andare avanti», si lascia scappare Gasparri. Molti temono che il Pd lo ipotechi: il pizzino di Enrico Letta a Monti sui sottosegretari era un tentativo di lottizzazione. «Saranno tutti tecnici, non sarà nominato nessuno che abbia mai fatto un comizio in vita sua», assicura il capogruppo al Senato. Il governo tecnico non è stato un atto ostile contro Berlusconi. Al contrario, è stato un atto concordato. Ciò significa che l'attuale esecutivo non sarà sfavorevole al centrodestra. Ovviamente se il Pdl non si metterà a sparargli addosso rendendolo nemico. Ed è questo che il vertice del partito del Cavaliere vuole al momento evitare. Anche perché Silvio è convinto che la sua uscita da palazzo Chigi gli abbia portato bene. L'altra sera a un gruppo di deputati ha spiegato chiaramente: «La Lega ha guadagnato un punto, ma anche noi ne abbiamo preso uno. Siamo ormai a pochi decimali dal Pd, che invece ci sta rimettendo». Quindi ha cercato tra i fogli e ha letto i dati: «Il Pdl è al 27,6%, il Pd al 28,5%. Meno di un punto ci separa». Insomma, questa fase di decantazione pare abbia giovato all'ex maggioranza di governo. Almeno di questo ne è certo Berlusconi, che in testa sembra avere solo e soltanto una cosa: le elezioni. Il voto. Le urne. Sta mettendo in piedi una sorta di web tv che per il momento andrà in onda soltanto un'ora al giorno. Poi metterà a punto azioni su Facebook. Prova a tradurre un fedelissimo dell'ex premier: «Per ora stiamo fuori, il Cavaliere ha bisogno di rifarsi l'immagine. Il governo dei tecnici farà il lavoro sporco e dopo ce la giochiamo di nuovo con una bella campagna elettorale». Sicuramente una semplificazione a uso e consumo della base. Ma verosimile. Gaetano Quagliariello, vicecapogruppo al Senato, preferisce volare alto: «Se il Pdl tiene, tiene l'architrave del bipolarismo. Ma per vincere questa partita contro i tentativi di restaurazione antistorica dobbiamo fare un passo in più: cementare una sintesi ideale che unisca credenti e non credenti, laici e cattolici, sulla base dei principi non negoziabili, dei principi del diritto naturale e sulla centralità della categoria dello Stato di diritto». Jole Santelli, vicecaprogruppo alla Camera, invece resta più per terra e si preoccupa che la discussione interna tracimi in una guerra intestina: «A chi coltiva illusioni e a chi spera nella divisione del partito, saremo costretti a dare ancora una volta una brutta delusione. Discuteremo, scambieremo le nostre opinioni, moltiplicheremo i luoghi dì confronto ma troveremo al nostro interno una sintesi che ci rappresenti tutti». C'è chi intanto si prepara per fare le scarpe al capogruppo a Montecitorio, Fabrizio Cicchitto, il quale però non se ne cura e se la prende con Tremonti. Due gli errori commessi dall'ex ministro dell'Economia a giudizio di Cicchitto: «I tagli lineari, che sono la negazione del riformismo, perché se tagli tutto del 10% vai a toccare settori come la scuola e le forze armate che invece non dovevano essere colpiti. E poi la mancata ricerca di una politica di crescita che ha pesato sul governo». Conferma Renato Brunetta: le cose che Berlusconi non è riuscito a fare sono imputabili «a un errore della politica economica del professor Tremonti». Non c'è dubbio: nel Pdl tira proprio una bella arietta.