Il Colle è il potere "più alto"
Il Quirinale è sempre stato, negli oltre 65 anni della Repubblica italiana, il più alto politicamente dei sette colli romani, picconato dall'invadenza dei partiti solo nel 1978. Quando, nel trambusto seguìto all'assassinio di Aldo Moro, che lo aveva difeso da una campagna diffamatoria condotta da destra e da sinistra, i partiti deposero di fatto il presidente della Repubblica Giovanni Leone. Salvo chiedergli scusa una ventina d'anni dopo: troppo tardi per restituirgli i sei mesi di mandato sottratti con le dimissioni falsamente volontarie, ma fortunatamente in tempo per alleviargli gli ultimi anni di vita. E per tributargli alla morte, il 9 novembre 2001, tutti gli onori che gli spettavano, morali e materiali. Ma con la gestione, e la soluzione, dell'ultima crisi ministeriale il Quirinale si è alzato ancora di più sugli altri colli romani. Che già Cicerone e Plutarco chiamavano Aventino, Campidoglio, Celio, Esquilino, Palatino e Viminale. Li sovrasta in modo ancora più visibile, rappresentando, se non l'unico, il potere sicuramente più forte di quelli immaginati o denunciati dai critici preconcetti del governo dei tecnici appena formato dal professore Mario Monti. Al quale il capo dello Stato ha fatto ricorso dopo avere accertato, fra pre-consultazioni e consultazioni, la indisponibilità dei partiti maggiori, al di là o dietro le loro declamazioni di segno opposto, a garantire una soluzione tradizionalmente politica alla crisi o ad affrontare davvero le elezioni anticipate. Che avrebbero pericolosamente permesso, volenti o nolenti, di mescolare piazze e mercati, comizi e titoli di Stato, sondaggi e spread. Del potere veramente forte del presidente della Repubblica non è il caso di preoccuparsi sia per le qualità di Giorgio Napolitano, non a caso in testa a tutti gli indici di gradimento, sia per il fatto che sopra di lui è e rimane il Parlamento. Che è il solo, «in seduta comune» e «a maggioranza assoluta dei suoi membri», come dice l'articolo 90 della Costituzione, a poterlo mettere in stato di accusa davanti alla Corte Costituzionale per alto tradimento o attentato alla stessa Costituzione. Il Parlamento - ripeto - e non altri. Ci sarebbe da inorridire alla sola idea che a promuovere azione contro il capo dello Stato potesse essere la magistratura ordinaria, viste le condizioni di sudditanza in cui le Procure della Repubblica sono riuscite a mettere la politica, approfittando anche dei suoi errori, comportamentali e legislativi. Siamo per fortuna al riparo dal rischio che a qualche sostituto procuratore venga la tentazione, da partigiano di chissà quale interpretazione delle nostre tante leggi, di fare le pulci giudiziarie alle decisioni del presidente della Repubblica, nonché presidente del Consiglio Superiore della Magistratura. Il capo dello Stato e i suoi consiglieri forse non ci hanno neppure pensato, ma risulta saggia anche sotto questo profilo, vista la gestione ormai anomala di tanta parte della giustizia in Italia, la decisione di anticipare l'arrivo di Monti a Palazzo Chigi con la sua nomina a senatore a vita. Che ha sicuramente e provvidenzialmente aumentato la caratura istituzionale e il prestigio politico del professore chiamato a succedere a Silvio Berlusconi. Ma gli ha anche garantito, altrettanto provvidenzialmente, quel poco di immunità rimasta ai parlamentari dopo l'amputazione volontaria, e suicida, dell'originario articolo 68 della Costituzione. Con tutto quello che si è scritto e detto, e si scrive e si dice tuttora, della sua presunta dipendenza da chissà quali oscuri, e con tutta la politicizzazione di certi magistrati, si può pensare con minore angoscia all'uso del telefono, per esempio, da parte del nuovo presidente del Consiglio. Che, senza il laticlavio, rischierebbe più facilmente di finire intercettato, e rovinato con le solite modalità dei processi mediatici e sommari, come può capitare a uno qualsiasi di noi.