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Travolto il modello Zapatero

Il Primo ministro uscente Zapatero con la moglie Sonsoles Espinosa

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Si è conclusa, con il voto di ieri, l'epoca di José Luis Rodriguez Zapatero. Un'epoca durata a lungo e che ha segnato la storia del paese iberico. L'esponente socialista vinse le elezioni politiche per due volte di seguito, nel 2004 e nel 2008. Adesso, il «modello Zapatero» è stato letteralmente travolto: i popolari hanno ottenuto la maggioranza assoluta e i socialisti hanno toccato il minimo storico. Il verdetto è inequivocabile e inappellabile. Si può presumere che la stagione laica e socialista incarnata, per tanti anni, dal leader del Psoe sia destinata ad essere archiviata tra i ferri vecchi e inutilizzabili da relegare in soffitta. Alla base del successo elettorale del leader del partito popolare, Mariano Rajoy, non c'è soltanto la prevedibile reazione alla drammatica crisi economica che attanaglia il paese e che, in qualche misura, è riconducibile alla più generale crisi economico-finanziaria dell'intera zona Euro. C'è, anche, un motivo più profondo che riguarda il fallimento totale di un «modello» di governo che ha imposto una vera e propria «svolta», morale e ideologica, in senso laicista e anticlericale: una svolta, a dir poco, lacerante per la coscienza di un paese qual è la Spagna, di antica e consolidata tradizione cattolica. Che la vittoria dell'esponente politico galiziano esprima tutto questo lo conferma, del resto, proprio il fatto che le ricette dei popolari per uscire dall'emergenza economico-finanziaria - più che alle facili promesse dei socialisti sull'illusorio salvataggio dello Stato sociale - si ispirano a un programma sostanzialmente liberista con una spruzzata di solidarismo cattolico e con una forte attenzione alla famiglia. In questo quadro, per esempio, rientrano, fra gli altri, la riduzione del carico fiscale per imprese e famiglie numerose, gli interventi contro la rigidità del mercato del lavoro, la riforma del sistema pensionistico basata sull'adeguamento degli assegni pensionistici ai contributi versati, la riduzione di enti locali, la semplificazione dell'apparato burocratico dello Stato. Interventi, tutti, che non saranno e non potranno essere a costo zero e che richiederanno sacrifici ad affrontare i quali gli spagnoli hanno realisticamente dato la loro disponibilità. L'archiviazione, dopo otto anni, del «modello Zapatero» comporterà una faticosa ricostruzione spirituale, oltre al rigore economico, per uscire dal tunnel della decadenza politica e morale, prima ancora che dalle macerie materiali nelle quali si trova il paese dopo un lungo periodo di governo socialista. Ma la Spagna è una grande nazione. Nel corso della storia ha fatto registrare sussulti di energia che le hanno consentito di superare momenti di decadenza in nome di quel concetto di hispanidad che esprime, con una parola intraducibile, l'essenza dello spirito spagnolo e, nel contempo, rivela la particolarità di un suo contrastato rapporto tra dimensione nazionale e proiezione europea. Un grande scrittore e diplomatico della seconda metà del XIX secolo, Angel Ganivet, cercò di cogliere l'anima della Spagna e il suo rapporto con l'Europa sottolineandone il carattere di tipica «nazione peninsulare», aperta e chiusa al tempo stesso, perché i Pirenei sono istmo e muraglia insieme. Tutta la discussione che coinvolse, all'indomani della perdita degli ultimi resti del grande impero spagnolo, tanti intellettuali - da Miguel de Unamuno a Pio Baroja, da Azorin a Ramiro de Maetzu, da Ramón Valle Inclan a José Ortega y Gasset - i cosiddetti esponenti della «generazione del '98», ruotava attorno alla ricerca delle caratteristiche dell'essere e sentirsi spagnoli e al rapporto con il continente europeo. Si trattò di una discussione svoltasi all'insegna del desiderio di superare quel sentimento di decadenza, vera o presunta, del quale la Spagna del tempo era divenuta prigioniera. Molta acqua è passata sotto i ponti da quando quei grandi pensatori spagnoli discussero sul fatto se una proiezione europea (in termini, ovviamente, spirituali) del proprio paese fosse un tradimento dell'hispanidad o rappresentasse un possibile superamento della decadenza politica e morale. Quella discussione, com'è naturale e comprensibile, rappresentò uno scatto di orgoglio intellettuale e ruotò attorno al dilemma della scelta, per il futuro di una Spagna non più imperiale, fra isolamento e collegamento con altre realtà. Sempre nel nome della hispanidad. Il voto di ieri ha rappresentato, sotto un certo profilo, il superamento di altro stato di decadenza morale, intellettuale ed economica, dovuta al laicismo socialista di Zapatero. Ha segnato anche, se vogliamo, un recupero della vera anima della Spagna. La vittoria di Mariano Rajoy, però, suggerisce anche considerazioni di altra natura, sulle quali è opportuno soffermarci. In primo luogo, essa è destinata a riflettersi sulle sorti del socialismo spagnolo, che difficilmente riuscirà a ricostruire una identità appetibile e a proporre un programma politico di rilancio della sinistra. La «sbornia» del zapaterismo è, insomma, passata. E non solo per la Spagna. Non è un caso che al grande convegno internazionale promosso qualche tempo fa dal braccio ideologico del Psoe, la fondazione «Ideas», per discutere del futuro della sinistra internazionale non abbiano preso parte né Luigi Bersani né Massimo D'Alema. Il «modello Zapatero», lo ribadisco, è out. E tale rimarrà a lungo. In secondo luogo, la vittoria dei popolari appare come una strada diversa da quella imboccata da altri paesi per il superamento della crisi economico-finanziaria e per l'ancoramento all'Eurozona: una strada tutta «politica», e per nulla tecnocratica, che non ha nulla in comune con quelle imboccate dall'Italia o dalla Grecia o dal Portogallo. Staremo a vedere quali ne saranno gli effetti. Intanto, dalla Spagna è giunto il segnale che il centro-destra non è morto.

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