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Commissariati i partiti non la politica

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Per quanto legittimato e politicizzato in pieno dalla fiducia concessagli dalle Camere, e con larghissima maggioranza, il governo di Mario Monti continua a fare storcere il naso, a destra e a sinistra. Alcuni parlano addirittura di democrazia sospesa o commissariata, come se gli 837 parlamentari, fra senatori e deputati, che hanno risposto sì agli appelli nominali, sui circa 950 che compongono le Camere, lo avessero fatto sotto l'effetto di allucinogeni. O sotto minaccia armata di quei quattro militari che presidiano gli ingressi di Palazzo Madama e di Montecitorio più per decorazione che per altro. Certo, non è comune che in una democrazia vengano chiamati in uno stesso governo un ambasciatore a guidare il Ministero degli Esteri, un ammiraglio il Ministero della Difesa, un prefetto il Ministero dell'Interno e un banchiere o, se preferite, un ex banchiere, visto che ha prontamente smesso di farlo, un Ministerone che si occupa di industrie, commercio, sviluppo, infrastrutture e tante altre cose che non possono prescindere dal credito. E che a dirigere tutta questa compagine ministeriale si trovi non un leader votato dal popolo, con il suo nome ben stampato sulle schede elettorali, come è avvenuto nei casi di Silvio Berlusconi e di Romano Prodi nella cosiddetta Seconda Repubblica, ma un professore universitario. Uno così orgoglioso di questa qualifica, per quanto fresco di laticlavio, da ricordare al Parlamento che i presidenti del Consiglio dei Ministri passano ma i professori restano. Cosa, questa, che prima di lui aveva detto, rigorosamente citato, un altro celebre professore universitario approdato alla politica con incarichi prestigiosi: Giovanni Spadolini. Il quale solo ad un'altra esperienza professionale era disposto a sacrificare o equiparare la cattedra: quella di direttore di giornale, prima al Resto del Carlino e poi al Corriere della Sera, che lui considerava, per quanto laico, una specie di Cattedrale della carta stampata. Tutto questo, certo, ha del singolare. Diciamo pure, dellanomalo. Ma non può essere contrapposto alla democrazia dopo che ha conseguito l'approvazione del Parlamento, dalla cui fiducia è dipesa e dipenderà, sino a revoca, la sua legittimazione. Lo ha precisato lo stesso Monti, pur avvertendo i deputati di stare bene attenti a negargliela con troppa fretta perché rischierebbero nelle urne di perdere a loro volta la fiducia degli elettori. Ai quali evidentemente nessuno pensa di togliere la parola se la situazione dovesse precipitare prima dell'epilogo naturale della legislatura, fra meno ormai di un anno e mezzo. Siamo e restiamo quindi ben piantati nella democrazia. Evitiamo di dare corpo ai fantasmi. Più che la democrazia parlamentare, risulta in qualche modo commissariata la politica. Ma non quella in senso lato, perché è politica anche l'azione di un governo tecnico, bensì la politica dei partiti. I quali però non possono onestamente lamentarsene, o non possono farlo più di tanto, perché o se lo sono cercato e meritato, il commissariamento, o addirittura lo hanno imposto a chi glielo voleva risparmiare o ridurre ricorrendo anche a ministri di caratura più politica. Incapace di rovesciare nelle urne e in Parlamento l'odiato Cavaliere, neppure quando la coalizione di centrodestra ha perso pezzi rompendo con Gianfranco Fini, pur di liberarsene il Pd ha spianato la strada ad un governo tecnico. E lo ha fatto cavalcando con grande spregiudicatezza una crisi economica e finanziaria che avrebbe, al contrario, dovuto indurlo dai banchi dell'opposizione a dare una mano al governo in carica. Ma a dargliela davvero, non limitandosi ad assistere dalla finestra agli eventi e lasciando cadere nel vuoto gli appelli allo spirito di coesione o solidarietà nazionale tanto insistentemente lanciati da un presidente della Repubblica insospettabile per le comuni origini politiche. Il Pdl, dal canto suo, ha obbiettivamente tentennato di fronte alla tempesta finanziaria con misure insufficienti e spesso contraddittorie. Ed ha preferito non prevenire o, meglio ancora promuovere, ma subire una crisi sempre meno evitabile. Il Cavaliere ha commesso, in particolare, l'errore di accettare più volte i veti della Lega contro una integrale applicazione degli impegni chiesti dalla Banca Centrale Europea per sostenere nei mercati i titoli del nostro ingente debito pubblico. Una crisi tempestiva, su quel tema, facendo lui l'uomo dell'Europa, per quanto deciso a contenere il debordante asse franco-tedesco, e non lasciando questo ruolo ad altri, gli avrebbe lasciato davvero il pallino in mano e spiazzato i suoi avversari, di sinistra e di centro. Così è se vi pare, pirandellianamente.  

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