Monti parte con il piede giusto ma l'esecutivo rimane debole
Al governo Monti mancano i politici. È un dato di fatto. Ma - è bene sottolinearlo - mancano per loro scelta, per i veti reciproci o per il desiderio malcelato di tenersi da parte al fine di esercitare un qualche potere di ricatto. Intendiamoci bene: il «governo tecnico» ovvero, per meglio dire, «il governo dei tecnici» non è mai una buona cosa, come hanno dimostrato bene illustri teorici del pensiero liberale come Benedetto Croce e Luigi Einaudi. Rappresenta una alterazione della normale dialettica democratica, perché la tecnocrazia non è democrazia, e, men che meno, democrazia liberale. È, questo tipo di governo, espressione di uno stato di necessità, di una situazione in qualche misura eccezionale. Che il professor Mario Monti ne sia ben consapevole mi sembra evidente. Lo dimostrano le parole da lui pronunciate ieri al Senato quando ha riconosciuto che il suo è un governo «nato per risolvere una situazione di seria emergenza», quindi «un governo di impegno nazionale». E quando, ancora, ha sottolineato che «il Parlamento è il cuore pulsante di ogni politica di governo». In questo esplicito riconoscimento del ruolo delle Camere e dell'importanza del dibattito parlamentare, c'è, sottinteso, l'appello di Monti ai politici perché mettano, almeno per un po', da parte la loro naturale propensione ad abbandonarsi ai giochi al massacro e facciano in modo che la politica, la politica autentica, la politica nel senso alto e nobile del termine, non rimanga a guardare e torni ad essere protagonista anche nella stagione, eccezionale, del «governo tecnico», di un governo che non ha altra ambizione se non quella di «impostare il lavoro per i governi che verranno» e, quindi, di adottare misure necessarie per superare l'emergenza e avviare il processo di ammodernamento strutturale del paese. Sono parole che costituiscono un richiamo al senso di responsabilità dei politici. Se l'invito avrà o meno qualche effetto è presto per dirlo. Certo è che il governo guidato da Mario Monti è un governo all'interno del quale spiccano dei nomi di sicuro prestigio e indiscutibile affidabilità, che, in alcuni casi (penso, per esempio, all'ambasciatore Giulio Terzi di Sant'Agata o allo storico Andrea Riccardi, fondatore della Comunità di Sant'Egidio), uniscono competenza tecnica e doti politico-diplomatiche. Tuttavia, né la composizione né la serietà complessiva della compagine di governo costituiscono una garanzia della sua solidità. C'è un deficit di politica dovuto all'assenza dei politici nel governo. Questo deficit, che il pressing del Quirinale non è riuscito a colmare, è il fattore che rende, in un certo senso, il governo fragile (o comunque meno solido di quanto sarebbe necessario) e che costringerà il premier a muoversi con estrema cautela lungo un percorso pieno di trappole e di paletti. L'intervento di ieri in Senato rientra in questa logica. Monti ha parlato di rigore, crescita, equità accennando alla necessità di reintrodurre l'Ici e intervenire sul sistema pensionistico e sui privilegi, ma non ha fatto cenno esplicito all'ipotesi di patrimoniale o alla riforma elettorale, ben consapevole che il solo sfiorare, ora, questi temi avrebbe potuto mettere in fibrillazione tutte le parti politiche. Ha, invece, toccato, con intelligenza «populistica» e occhio volto agli umori e alla sensibilità del cittadino qualunque, le questioni scottanti dei costi della politica, della lotta all'evasione, del peso fiscale sempre più opprimente. Un buon inizio, insomma. Un inizio, però, che non deve far dimenticare il fatto che il terreno sul quale il governo deve muoversi è un terreno minato. La mina forse più grossa - quella dotata di una carica esplosiva politicamente dirompente - è esterna al programma di governo. È la mina rappresentata dall'incognita sulla sorte del referendum elettorale legata, in primo luogo, alla decisione della Corte Costituzionale sulla sua ammissibilità o meno e, se del caso, al suo effettivo svolgimento. Comunque sia, la debolezza del governo Monti - cioè il «deficit di politica» causato dal rifiuto dei politici di farne parte - è, paradossalmente, anche la sua forza. Tanto il centro-destra quanto il centro-sinistra, infatti, sono attraversati da fibrillazioni profonde che riflettono le loro crisi interne, mettono in discussione la logica stessa delle aggregazioni attuali e rendono friabile e incerto il quadro di interessi e convenienze dei diversi soggetti politici. Centro-destra e centro-sinistra sono condannati a una sorta di guardingo «immobilismo armato». E questo fatto può fare la fortuna del governo Monti. Che al «deficit di politica» può opporre, se ne sarà capace, quella che il conte di Cavour chiamava «la grande politica» cioè la politica delle «risoluzioni audaci».