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Se l'abito fa il monaco e anche il politico

Il senatore a vita Giulio Andreotti

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Con il voto prima del Senato e poi della Camera il governo tecnico di Mario Monti ha indossato l'abito politico di gala prescritto dalla Costituzione. «Il Governo – dice l'articolo 94 – deve avere la fiducia delle due Camere». Ora ce l'ha. E con numeri altissimi, sia a Palazzo Madama sia a Montecitorio, dove peraltro il presidente del Consiglio ha pronunciato ieri un discorso di replica invidiato anche da politici di professione. A sentire Monti dialogare con l'aula, e vedergli muovere quelle mani, spostandole dalla tavoletta della sua postazione di governo alla spalliera della poltrona, mi è sembrato ad un certo punto di rivedere l'ultrademocristiano Giulio Andreotti ancora in servizio permanente effettivo. E di rigustarne le battute fulminanti: di quelle che da sole valevano un discorso, o rappresentavano il quadro di una delle complesse e intricate situazioni politiche affidate alla sua gestione dal proprio, ma anche da altri partiti, compreso quello storicamente più diverso e lontano. Tale era, per esempio, il Pci di Enrico Berlinguer, che peraltro nel 1976 per appoggiarlo, prima con l'astensione e poi con una fiducia vera e propria, negoziata da Aldo Moro in quella che sarebbe stata tragicamente la sua ultima impresa politica, non osò reclamare un governo tecnico. O non gli fu permesso di reclamarlo, essendo apparso a Moro naturale, e per lui in qualche modo obbligatorio, che a comporlo fosse il partito uscito dalle urne con il maggior numero di voti. A Berlinguer bastò, ed avanzò, che in quel giro non fosse preferito nessun altro partito al suo per fare compagnia nel governo alla Dc, con una decisione che penalizzò, in particolare, i socialisti. E che nel Pci non fu condivisa, dietro le quinte, se non ricordo male, solo da Giorgio Napolitano. Sì, proprio lui, l'attuale presidente della Repubblica. Che è stato il fortunato regista di questa crisi di governo, aperta e risolta in meno di una settimana. Certo, erano altri uomini e altri tempi, sia pure sempre di emergenza. Si era, fra l'altro, all'inizio e non verso la fine di una legislatura. Che in questo nostro caso ha visto sfarinarsi in meno di tre anni la maggioranza guidata da un leader non mediato o negoziato, bensì espresso direttamente dagli elettori. Ma, per quanto diversi, sono pur sempre tempi politici, a dispetto dell'origine tecnica, o apartitica, del governo guidato da un senatore a vita come Monti, tempestivamente portato al laticlavio dal capo dello Stato anche per rappresentare meglio questo particolarissimo, inedito passaggio della storia italiana. Da ieri, per la natura e la vastità dei consensi parlamentari che ha saputo guadagnarsi in una pur stringata discussione di fiducia, sotto l'incalzare dei mercati e di una crisi economica e finanziaria di dimensioni internazionali, il governo Monti dunque non è più soltanto tecnico. E un governo anche politico, nelle uniche forme e dimensioni consentite da una situazione a dir poco straordinaria. In cui Monti potrà essere – per usare le sue stesse parole – «un rasoio o un polmone artificiale» della politica. Al quale sarà ben rischioso «staccare la spina» prima del necessario, o solo dell'opportuno. E infatti Silvio Berlusconi, che la politica ha imparato ormai a masticarla bene pure lui, ha subito smentito l'immagine attribuitagli dalle cronache, a torto o a ragione, dell'uomo smanioso di togliere la corrente al nuovo governo. L'abito, di certo, non fa il monaco. Di solito. Ma questi sono tempi eccezionali, in cui anche l'abito infilatogli addosso con la fiducia dalle Camere può fare di quello presieduto dal professore bocconiano Monti un governo davvero politico, e non solo tecnico, come è nato a causa del passo indietro fatto o accettato dai partiti, con la sola eccezione della Lega, di fronte all'incalzare della crisi.

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