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No all'esecutivo di "nessuno"

Il presidente del Consiglio Mario Monti legge la lista dei ministri

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Il nuovo governo "tecnico" guidato da Mario Monti ha ricevuto la fiducia da "quasi tutti" i partiti, meno la Lega Nord. È assolutamente necessario però che, a partire da lunedì e soprattutto al momento delle decisioni concrete che dovrà prendere, non diventi il governo di "nessuno". Cerco qui di spiegare il perché. La prima considerazione è che il Presidente del Consiglio ha stabilito (ed è musica per le mie orecchie) un'importante e determinante "discontinuità". Il Professor Monti ha detto infatti con chiarezza e determinazione una verità incontrovertibile: la politica economica è fatta di rigore finanziario, di crescita economica e di equità sociale. Si è permesso anche di dire un'altra verità: una politica economica squilibrata solo sul fronte del rigore finanziario (che di per sé è un obiettivo assolutamente condivisibile), se perseguito attraverso il mero aumento delle tasse, e peggio ancora sui soliti tartassati, deprime la crescita, crea ingiustizia sociale e alla fine non raggiunge neanche l'obiettivo dell'equilibrio finanziario. Non è stata quindi una lezione da "tecnico-accademico" ma un richiamo "forte e chiaro" alla responsabilità della politica, perché non sono scelte tecniche quelle che questo governo dovrà affrontare, ma scelte politiche. E proprio per questo occorre fare subito chiarezza su un punto cruciale: con la fiducia i partiti non hanno semplicemente consentito al governo di nascere, ma hanno soprattutto sottoscritto il programma, cioè le decisione da prendere. Elenco allora i sei punti del programma. Primo: i tagli ai costi della politica. Ma non ai costi "finti" della politica. Quei tagli - che comprendono il numero dei parlamentari, gli stipendi dei parlamentari, il numero dei consiglieri provinciali, l'abolizione delle province - sono sacrosanti ma consentono di risparmiare "soltanto" qualche centinaio di milioni di euro. Occorre invece dire basta ai tagli "orizzontali generici" (che sono la non-scelta della politica di questi anni) e sostituirli con tagli "verticali mirati" con quella che è stata definita la spending review. E allora è bene andare subito avanti col programma. Una spending review, seppure un po' artigianale, consente di indicare da subito due voci nel bilancio pubblico di tutte le amministrazioni che contengono i veri costi della politica, sospettabili di avere dentro sprechi, malversazioni, ruberie, aree grigie tra economia e politica: si chiamano "acquisti di beni e servizi e fondi perduti elargiti alle imprese". Lo ripeto da anni, ma quando se non questo è il momento di tagliare quelle entità di decine di miliardi di euro, per recuperare ingenti risorse da destinare allo sviluppo e all'equità fiscale e per introdurre etica, legalità e sobrietà nella politica. Il secondo punto riguarda il sistema pensionistico. L'Europa non ci chiede enormi sacrifici. Ci chiede però di essere seri. E allora l'allungamento dell'età pensionabile, inevitabile anche nell'ambito di una forchetta di scelta del cittadino-lavoratore, con l'applicazione del contributivo pro rata immediato per tutti ha senso di equità e crea risorse per sostenere giovani e donne che, soprattutto in questi anni, hanno accumulato pesanti "buchi contributivi" e che anche per questo avrebbero pensioni misere. Il terzo punto è il mercato del lavoro. È necessario riunificare il mercato del lavoro dalla spaccatura tra gli iperprotetti (cinquantenni e sessantenni) e coloro che stanno al freddo e al gelo, ossia i giovani ventenni e trentenni. E questa "ricucitura dei diritti e delle protezioni" andrà fatta non soltanto per i nuovi assunti. In qualche misura ci dovrà essere una coesione sociale che coinvolga tutto il mondo del lavoro. Il quarto punto riguarda le liberalizzazioni e le privatizzazioni, a partire dalle professioni e dalle ex-municipalizzate. Il quinto punto riguarda il capitale umano, ricerca e università. Credo che sia giunto il momento di togliere la foglia di fico da qualunque riforma universitaria, e questo si chiama abolizione del valore legale del titolo di studio. Il sesto ed ultimo punto è un'altra consolidata verità economica che il Presidente Monti ha espresso con grande chiarezza e cioè che la stabilità finanziaria di un paese è definita da un andamento in seria, concreta e progressiva riduzione del "rapporto" tra Debito Pubblico e Prodotto Interno Lordo. Questa verità fa giustizia e sgombra il campo dalle tante proposte demenziali emerse negli ultimi mesi che hanno indicato una patrimoniale, straordinaria ed una-tantum, di circa 200/300/400 miliardi di euro per abbattere il debito pubblico in tempi apparentemente brevi e rapidi. Questa balzana idea, infatti, ammazzerebbe l'economia italiana e non ridurrebbe né il debito pubblico né il rapporto Debito/Pil. Avremmo infatti per cinque o dieci anni una pesante recessione che, oltre a mettere in ginocchio le famiglie, le imprese, i giovani, le donne, porterebbe ad un aumento del deficit e del debito pubblico. Alla fine ci troveremmo tutti più poveri del 30/40% ed un debito pubblico più alto di oggi. Diverso è parlare, come ha fatto Mario Monti, di una possibile imposta patrimoniale "ordinaria" tipo la vecchia ICI sulla prima casa o la nuova IMU che però dovranno servire "esclusivamente" a ridurre l'Irpef alle famiglie e l'Irap alle imprese. In questo senso una imposta patrimoniale "ordinaria" non ha nulla a che vedere con il debito pubblico, ha invece a che vedere con l'equità fiscale e la giustizia sociale nonché con il sostegno alla crescita tramite la riduzione della pressione fiscale sulle imprese e sui lavoratori. Correttamente il Presidente del Consiglio ha indicato le due vie necessarie per dare al rapporto Debito/Pil un serio, credibile e progressivo percorso di riduzione, in questo senso per assicurare i mercati finanziari della stabilità dell'Italia e della sua solvibilità. Il numeratore (il Debito Pubblico) va ridotto attraverso un credibile programma di medio-lungo termine di valorizzazione e privatizzazione del Patrimonio Pubblico. Il denominatore (il Pil) va aumentato con un vero progetto nazionale per la crescita economica. Questo è il programma. E su questo occorre fare due brevi considerazioni strettamente politiche. In primo luogo, deve essere chiaro che questo governo è l'ultima occasione per la Repubblica Italiana. Occorre cioè sgombrare il campo da qualche retro-pensiero che potrebbe vedere qualche forza politica votare la fiducia "oggi" per magari sfilarsi "domani" di fronte alle concrete proposte di riforma che il governo dovrà avere il coraggio e la determinazione di presentare al Parlamento. Se così fosse, quel qualcuno sappia fin d'ora che crollerebbe la Repubblica Italiana e le elezioni si terrebbero dopo un distruttivo terremoto finanziario ed economico che lascerebbe nel nostro paese pesanti e gravi macerie, politiche, economiche e sociali. In secondo luogo, la conseguenza di questa malaugurata ed irresponsabile ipotesi trascinerebbe a fondo anche l'euro e l'Europa, in una fase storica nella quale l'equilibrio del nuovo mondo della globalizzazione ha estremo bisogno di una Europa forte e protagonista al fine di dare all'economia mondiale una prospettiva di equilibrio, di crescita e di maggiore giustizia sociale per tutti. Proprio per questo l'Italia deve fare presto e bene il compito a casa propria, per poter essere protagonista in Europa e contribuire a far fare alla stessa Europa il suo fondamentale compito nel nostro continente e nel Mondo. Ecco perché salvare l'Italia con riforme strutturali significa anche costruire l'Europa o meglio costruire al più presto gli Stati Uniti d'Europa, quella entità politica ineluttabile per il futuro del nostro continente e per la sostenibilità degli equilibri mondiali.

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