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Ma questo non era il governo che volevano premier e Colle

Il governo Monti dopo il giuramento al Quirinale in un'immagine tratta da SkyTg24

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La nascita del governo Monti è accompagnata dalle speranze, che sono anche le nostre, e dal desiderio che il linguaggio della serietà e della concretezza sappia parlare agli italiani e ai mercati, facendo comprendere la nenecessità di misure destinate a rendere più sostenuta la crescita, liberandola da troppi vincoli, così come presentando agli speculatori il volto forte del nostro popolo e del nostro sistema produttivo. Chiunque non sia uno sfasciacarrozze vuol credere che ciò sia possibile. Al tempo stesso, però, osservando il nuovo governo, il modo in cui è nato, il suo rapporto con il Parlamento, la sua stessa struttura, vien fatto di pensare al cristallo: più sotto l'aspetto della fragilità che della lucentezza. Conosco i polli e il pollaio della politica italiana, so bene che ogni perplessità verrà messa sul piatto opposto a quello che, in un'immaginaria bilancia, contiene gli elogi sperticati e il lecchinismo di maniera. Poco me ne cale, il ragionamento che segue è destinato a lettori che preferiscano ragionare (anche dissentendo, naturalmente) piuttosto che dedicarsi allo sterile strillare delle tifoserie. La squadra governativa che ieri ha giurato non è quella che il presidente del Consiglio avrebbe voluto, non è quella cui ha lavorato il regista dell'intera operazione, il presidente della Repubblica. Lo deduco da molti indizi, ma, prima di tutto, dalle parole di Mario Monti: i ministri sono tutti tecnici perché questo crea meno imbarazzi. Detto in modo diverso: avevamo in mente altro, ma non ce lo hanno fatto fare. I tre giorni di consultazioni, dalla domenica quirinalizia fino al lunedì e martedì del presidente incaricato, culminati nel lunghissimo (e in tal senso indicativo) colloquio fra i due, prima di rendere pubblica la lista dei ministri, non erano certo destinati a stabilire chi avrebbe presieduto il governo e quale ne sarebbe stata la natura, perché sono cose note fin da prima che Silvio Berlusconi rassegnasse le dimissioni. Le consultazioni erano destinate a premere sui due grandi partiti, il Pdl e il Pd, affinché prendessero atto della fine della seconda Repubblica e consentissero una partecipazione politica al nuovo governo. Lo sforzo è stato inutile, l'insuccesso totale. Questo è il punto da comprendere e dal quale ripartire. La partita della difesa dei nostri interessi nazionali si giocherà su due fronti, uno interno e l'altro internazionale. Sul fronte interno il governo Monti altro non è che un commissariamento della politica, una sospensione delle regole democratiche, pur formalmente rispettate. Detto in modo più preciso: il Quirinale s'è assunto il commissariamento dell'opposizione e Monti quello del governo. Su tale fronte, interno, una composizione governativa vale l'altra, perché Pdl e Pd dovranno comunque fare i conti con la frantumazione delle rispettive coalizioni, e, quindi, con l'inconciliabilità fra il voto di fiducia e il perpetuarsi dei vecchi schemi. Se uomini di peso, dei rispettivi mondi, fossero entrati a far parte del governo non per questo sarebbe cambiata la situazione, salvo il fatto che quei partiti avrebbero dimostrato di avere le idee più chiare. Non ci sono riusciti, non sono stati all'altezza, e la responsabilità, va detto, è prima di tutto del Pd, che non ha rinunciato a porre dei veti personali, restando ancorato al passato. Errore imperdonabile. Siccome la politica nostrana crede che il tempo sia eterno, le urgenze una finzione retorica e il proprio microcosmo il centro del mondo, nella Roma politica si dice che il governo potrà essere integrato in un secondo tempo. Ma non ci sarà, un secondo tempo. Il secondo fronte, quello internazionale, è più delicato e meno disposto ai minuetti. Qui sarebbe stato importante avere al governo gente come Giuliano Amato e Gianni Letta, perché avrebbe accresciuto notevolmente lo spessore dell'esecutivo, la quantità e qualità di relazioni internazionali da utilizzare e la familiarità con problemi complessi. C'è la questione dell'euro, che non si risolverà mai con misure esclusivamente nazionali. Possiamo tassarci all'osso, non andare mai in pensione, licenziare tutti i dipendenti pubblici e privatizzare le municipalizzate (andando in direzione diametralmente opposta a quella di un recente, plebiscitario e folle risultato referendario, voluto dalla sinistra), ma non fermeremo la speculazione sui debiti sovrani, perché la causa è nell'euro, nel suo essere incompiuto, nella moneta unica di un'area che non ha univocità politica. Ma non c'è solo l'euro. Dovrebbe essere ancora fresco il ricordo di quel che è successo in Libia e non ci vuole uno stratega (un minimo di alfabetizzazione sì) per immaginare cosa significherà, fra breve, la questione iraniana. Ecco, con tutta la buona volontà non è immaginabile che le tensioni derivanti da questi interessi e da quei conflitti possano essere dominati da un diplomatico e da un militare di carriera, che pure hanno il merito di avere dimostrato una saggia coerenza atlantica. Ecco perché il governo sembra di cristallo. Si può rimediare? Teoricamente sì: i due grossi partiti votino la fiducia, lascino l'esecutivo al suo lavoro e si dedichino alla riforma del sistema elettorale, in modo da fronteggiare lo spappolarsi di alleanze di cui nessuno sentirà mai la mancanza. Devono farlo, e subito, altrimenti si rischia, chiusa la parentesi cristallina, di consegnare l'Italia agli estremisti. Il pericolo sta nelle misure intermedie: oggi la fiducia e domani il conflitto; si fa partire il governo, ma poi lo si ferma. Napolitano e Monti non sono riusciti a ottenere più che un rinvio. Ed è troppo poco. I grossi partiti non sono stati in grado di trovare un minimo comun denominatore, consegnandosi ad un possibile massimo comun divisore. Tutti sono oggi fermi nel guardare il cristallo, sperando che abbia capacità salvifiche. Impossibili. Dimenticano che il cristallo, quando si rompe, taglia.

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