La rinuncia a Letta e Amato è il primo atto politico di Monti
Il governo di Mario Monti è nato ancora più tecnico, e più unico, delle previsioni o delle attese. O anche delle preoccupazioni di chi riteneva utile al suo decollo la presenza di qualche esponente autorevole del mondo politico, più in grado dei tecnici di tenere i necessari collegamenti con i partiti e i gruppi parlamentari. A nutrire queste preoccupazioni, o convinzioni, non siamo stati solo noi, qui a Il Tempo, con ripetuti interventi del direttore Mario Sechi, ma forse ancor prima di noi gli stessi presidenti della Repubblica e del Consiglio. I quali hanno cercato sino all'ultimo, ma inutilmente, di convincere i partiti a rinunciare a quel gioco di veti paralizzante, e non del tutto limpido, come vedremo, che ha impedito la nomina a ministri di Gianni Letta, già sottosegretario di Silvio Berlusconi alla Presidenza del Consiglio, e di Giuliano Amato, già voluto e sostenuto dal Pds-ex Pci e dai suoi alleati alla guida del governo, dopo le brevi esperienze di Massino D'Alema a Palazzo Chigi, e del Ministero dell'Interno nel secondo ed ultimo governo di Romano Prodi. Sono stati proprio i reiterati, a volte persino drammatici, tentativi telefonici di fare rientrare i veti contro Gianni Letta e Giuliano Amato a protrarre per quasi due ore e mezza il colloquio di ieri fra Giorgio Napolitano e Monti per lo scioglimento della riserva da parte del presidente del Consiglio incaricato e la diffusione della lista dei ministri. Non ce n'erano mai stati di così lunghi nella storia repubblicana degli incontri al vertice dello Stato per la tappa finale di una crisi di governo: un altro primato guadagnatosi già al suo esordio di presidente del Consiglio da Monti. Che vi ha aggiunto anche quello del numero minore di ministri: solo 16, di cui 5 senza portafogli, contro i 27 e i 25, rispettivamente, dei due precedenti governi più o meno tecnici succedutisi negli ultimi vent'anni, presieduti da Carlo Azeglio Ciampi, fra il 1993 e il 1994, e da Lamberto Dini, fra il 1995 e il 1996. Ad aiutare Monti a battere il record di magrezza, diciamo così, del governo hanno contribuito, fra l'altro, la sua decisione di assumere anche l'incarico di ministro dell'Economia e l'accorpamento di alcuni dicasteri già consistenti come quelli dello Sviluppo Economico e delle Infrastrutture. Il carattere interamente tecnico costituisce paradossalmente l'aspetto politico più significativo della nuova compagine ministeriale. Anche nel governo di Lamberto Dini, decisamente più tecnico di quello formato da Ciampi nel 1993, si riuscì a lasciare un posto - e di grande rilievo - ad una personalità di spiccata qualità politica come Susanna Agnelli, sorella dell'ancora più celebre Gianni, presidente della Fiat. Più volte eletta parlamentare nelle liste del Partito Repubblicano, l'indimenticata autrice di «Vestivamo alla marinara» assunse nel governo Dini la guida del prestigioso Ministero degli Esteri. Di cui era già stata sottosegretaria, tutta politica, fra il 1983 e il 1991 con presidenti del Consiglio, fra gli altri, come Bettino Craxi e Giulio Andreotti. Lo stesso Monti ha voluto spiegare ieri ai giornalisti di avere rinunciato a Gianni Letta e ad Amato per togliere i partiti dallo stato di «imbarazzo» in cui li aveva messi il suo progetto di un governo non completamente tecnico. Formalmente l'imbarazzo è stato quello del Pd di Pier Luigi Bersani, e dell'Italia dei Valori di Antonio Di Pietro, di accettare e sostenere con il voto di fiducia come ministro Gianni Letta perché storico braccio destro del Cavaliere, destinato con la sua presenza a contraddire la «discontinuità» reclamata dalla sinistra rispetto al precedente quadro politico. L'altro imbarazzo è stato quello del Pdl di avallare con l'accettazione del solo Amato la discriminazione politica inflitta all'ormai ex sottosegretario di Berlusconi. Che pure è generalmente stimato e considerato, anche in settori di opposizione al Cavaliere come l'Udc di Pier Ferdinando Casini e l'Api di Francesco Rutelli, più un tecnico che un politico, un uomo al di sopra delle parti prestato alle istituzioni dopo un lungo esercizio della professione giornalistica. Che i lettori di questo giornale ricordano bene per esserne lui stato a lungo il direttore. Ma Gianni Letta in questa incresciosa e ambigua vicenda non si è trovato a pagare solo lo scotto di un clima politico troppo teso, da cui il nuovo presidente del Consiglio spera peraltro di fare uscire tutti con il suo governo. Che vorrebbe essere anche di decantazione, e non solo di emergenza per le misure urgenti imposte dalla crisi dell'economia, dai mercati finanziari e dai vincoli di appartenenza all'Unione Europea. L'ex sottosegretario di Berlusconi ha dovuto subire anche, o ancora di più, gli effetti delle tensioni esistenti nel Pd, dove il veto contro di lui è stato cavalcato per esercitarne, specularmente, uno meno confessabile contro Amato. Una indiscrezione non smentita del «Corriere della Sera» attribuiva ieri a Pier Luigi Bersani, in risposta alle sollecitazioni dei presidenti della Repubblica e del Consiglio per la nomina proprio di Amato a ministro, l'ammissione di avere difficoltà a farlo «accettare» nel partito come «uno dei nostri». Questa riottosità degli ex o post-comunisti non deve d'altronde stupire ricordando i lunghi e non irrilevanti anni della collaborazione di Amato con Craxi, l'uomo forse più odiato dal Pci e sigle successive. O l'assai dubbia generosità con la quale egli fu chiamato da loro a succedere a D'Alema a Palazzo Chigi nel 2000, quando la legislatura sembrava avviata ad una sconfitta elettorale della sinistra nell'anno successivo. Non a caso, non appena le previsioni sembrarono migliorare, sia pure in modo effimero, gli fu preferito Francesco Rutelli come antagonista del Cavaliere nelle urne. Ma già quando si era aperta, nel 1999, la successione a Oscar Luigi Scalfaro al Quirinale, la candidatura di Amato era durata lo spazio di pochi giorni. Gli era stato infatti preferito a sinistra, su iniziativa soprattutto del segretario del Pds Walter Veltroni, l'allora ministro del Tesoro ed ex presidente del Consiglio Ciampi. Giurista sottile, esperto anche di economia, ben introdotto a livello internazionale e finanziario, conoscitore come pochi della macchina della pubblica amministrazione, Amato è stato generalmente trattato dai post-comunisti più come un limone socialista da spremere nella loro disperata ricerca di una nuova identità che come un compagno gradito e premiabile davvero. E non è mai stato considerato affetto da una dose per essi accettabile, o affidabile, di antiberlusconismo.