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Governo numero 62. Unico nel suo genere

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Quello che Mario Monti è stato incaricato di formare porterà il numero 62 nel lungo elenco dei governi repubblicani d'Italia, comprensivo anche del primo di Alcide Gasperi, che la Repubblica ereditò per pochi giorni dalla Monarchia dopo il referendum del 2 giugno 1946. Ne seguirono altri tre dello stesso De Gasperi durante l'Assemblea Costituente, prima che venissero elette le Camere il 18 aprile 1948 e cominciasse la storia delle vere e proprie legislature repubblicane e dei 58 governi in esse partoriti. Ma oltre che ultimo in ordine anagrafico, quello di Monti si presenta sin d'ora come unico per il suo genere, a dispetto dei precedenti richiamati nei giorni scorsi pasticciando un po' troppo con la storia e con la cronaca politica. Per i confini assai larghi della prevedibile maggioranza parlamentare di Monti, dalla quale sembra esclusa sinora solo la Lega di Umberto Bossi, sono stati da molti evocati i due governi di cosiddetta solidarietà nazionale presieduti da Giulio Andreotti fra il 29 luglio 1976 e il 31 gennaio 1979. Ma quelli furono due Ministeri interamente formati da politici veri e propri della Dc, appoggiati tra astensioni e voti di fiducia da partiti che trattarono il programma. E lo fecero, con la ratifica delle loro decisioni da parte dell'allora presidente della Repubblica Giovanni Leone, all'indomani di un turno di elezioni anticipate che aveva obbligato i due partiti maggiori - la Dc, appunto, e il Pci - a mettersi d'accordo, non disponendo nessuno di loro di alleati sufficienti a fare a meno l'uno dell'altro nelle aule parlamentari. Si era in condizioni di emergenza anche allora, di carattere economico e quella volta anche di ordine pubblico, ma le circostanze politiche e le condizioni dei partiti erano ben diverse da quelle odierne. Lo erano, se permettete, anche i leader impegnati direttamente nell'operazione: Aldo Moro e Andreotti per la Dc, Enrico Berlinguer per il Pci, Bettino Craxi per il Psi. Nomi ai quali francamente fatico ad accostare, per esempio, quelli di Pier Ferdinando Casini, di Pier Luigi Bersani ed anche di Monti. Il cui altissimo e apprezzabilissimo livello è tecnico e non politico, per quanto - bravo com'è - imparerà presto e bene a diventarlo pure lui, e non solo perché di fresca nomina anche a senatore a vita. Egli riuscirà magari a praticare la politica e a muoversi così bene fra le sue pieghe da spiazzare e superare tutti i concorrenti, palesi e occulti, per la successione a Giorgio Napolitano al Quirinale, fra poco più di un anno e mezzo. Come capitò felicemente, del resto, nel 1999 ad un altro tecnico: Carlo Azeglio Ciampi, l'ex governatore della Banca d'Italia, succeduto ad Oscar Luigi Scalfaro dopo che si era fatto rapidamente le ossa da politico, prima come presidente del Consiglio e poi come ministro del Tesoro. Improprio, rispetto a quello di Monti, è anche il precedente, da molti invocato, del primo governo di Giuliano Amato nel 1992. Che non fu per niente un governo tecnico, e neppure di larghe intese. Fu, al contrario, un governo estremamente politico, chiamato a protrarre per alcuni mesi una maggioranza - estesa dalla Dc al Psi e contrastata dal Pds-ex Pci - che era sopravvissuta con pochi margini alle elezioni d'aprile. E che era destinata a perdere per strada uomini e pezzi per le indagini giudiziarie sul finanziamento illegale dei partiti e sui reati spesso connessi di corruzione e concussione. Lo stesso Amato fu scelto da Scalfaro in una rosa di nomi offertagli dal segretario del Psi Craxi dopo che questi, indicato dalla Dc e dagli alleati per un ritorno a Palazzo Chigi, era stato appiedato dalle indiscrezioni che lo davano già coinvolto, o prossimo ad esserlo, nella bufera giudiziaria di Tangentopoli. Gli altri nomi, indicati a Scalfaro da Craxi «in ordine non solo alfabetico», come egli stesso precisò uscendo dall'ufficio del capo dello Stato, furono quelli di Gianni De Michelis e di Claudio Martelli. Non mi pare proprio che Napolitano sia arrivato ieri al nome di Monti, per l'incarico di presidente del Consiglio, scegliendo fra i petali di rose o margherite offertegli da uno o più partiti sfilati nel suo ufficio, o sentiti per telefono, nelle consultazioni protocollari o meno che hanno seguito ma anche preceduto l'apertura della crisi avvenuta con le dimissioni di Silvio Berlusconi. Vi è arrivato in ben altro modo, e sotto l'incalzare di ben altri fatti e timori. E veniamo al penultimo «precedente» evocato, particolarmente a sinistra, per esempio da Walter Veltroni, per collegarlo a quello di Monti: il governo formato il 28 aprile 1993 da Ciampi. Che però approdò a Palazzo Chigi al termine e come conseguenza di un percorso politico completamente mancato in questa occasione. Scalfaro scomodò l'allora governatore della Banca d'Italia dopo avere concordato con la Dc, in particolare con l'allora segretario Mino Martinazzoli, il conferimento dell'incarico di presidente del Consiglio a Romano Prodi: un tecnico, certo, professore e già presidente dell'Iri, ma di nota e provata militanza democristiana. Che il Pds-ex Pci già allora apprezzava, ma non tanto da farne il proprio candidato a Palazzo Chigi, come sarebbe avvenuto qualche anno dopo con la costruzione dell'alleanza dell'Ulivo. Esso preferiva allora il protagonista dei referendum elettorali Mario Segni, appena dimessosi dalla Dc con motivazioni di carattere anche morale che avevano messo in forte imbarazzo l'allora partito di maggioranza. Per comporre il contrasto tra la designazione della Dc e quella del Pds-ex Pci, allora guidato da Achille Occhetto e ormai deciso a far parte del nuovo governo e della nuova maggioranza per prenotare da posizioni di forza il risultato delle successive elezioni, Scalfaro mandò suoi emissari da Prodi e da Segni per offrire all'uno la carica di presidente del Consiglio e all'altro quella di vice presidente. Ma Segni, pensando evidentemente di avere più carte di Prodi da giocare, disse no. Non lo convinceva, fra l'altro, un governo «a termine», destinato a durare sino alle elezioni dell'anno dopo. E così Scalfaro ripiegò su un governo Ciampi. Tutt'altra storia, come si vede, da quella di Monti. Tutt'altra storia, rispetto a Monti, è anche quella del governo tecnico di Lamberto Dini, subentrato nel gennaio del 1995 a Berlusconi. Ma fu lo stesso Berlusconi allora a designare il successore, avendolo avuto come ministro del Tesoro nel suo primo governo, appena abbattuto da Bossi. E non fu una designazione fortunata, visti gli equivoci che seguirono, soprattutto sulla durata che il nuovo governo avrebbe dovuto avere per approdare alle elezioni anticipate. Che peraltro non sono state di certo auspicate ieri da Napolitano conferendo l'incarico a Monti.

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