Ecco perché al Cav conviene tenersi stretto Super Mario
Mario Monti dovrebbe ereditare palazzo Chigi da Silvio Berlusconi. Ma, pur riconoscendo le grandi qualità del presidente della Bocconi, la sua rischia di non essere una marcia trionfale. Il governo tecnico sta già producendo defezioni tra i partiti, e dalle larghe intese auspicate da Giorgio Napolitano si scenderà ad intese ristrette. Tra coloro che saranno all'opposizione ci sarà la Lega, che forse non attendeva altro per recuperare consensi; poi Di Pietro e l'estrema sinistra di Nichi Vendola. Fin qui poco male, anzi. Appoggerano Monti il Pd, il Terzo polo in blocco che tenterà di adottare il professore per lanciarlo alle elezioni 2013, ed infine una parte del Popolo della Libertà. E qui sta il vero dilemma di queste ore. Ieri Mario Sechi ha giustamente scritto che non si può consegnare un Paese alla finanza ed ai mercati: occorre una guida politica ed un controllo democratico. Di quali opache operazioni siano capaci le centrali finanziarie se decidono di attaccare un paese, lo stiamo vivendo sulla nostra pelle. Al tempo stesso in Europa sta cercando di prendere piede un'altra manovra, stavolta con l'alta politica che si serve del braccio armato finanziario. È il direttorio franco-tedesco, che punterà pure al breakup dell'euro ma finora sta producendo con le sue politiche recessive il rischio di una crisi generale della parte più ricca del mondo. Germania compresa. Che cosa c'entra tutto questo con Monti, e con le scelte di Berlusconi? C'entra moltissimo. Il possibile futuro premier, pur stimato in tutta Europa, non dovrà inchinarsi né ai mercati né alla Merkel e Sarkozy, che difendono in modo sempre più evidente i loro interessi nazionali, a cominciare da quelli bancari. Per riuscire, però, dovrà contare non solo su un buon consenso in Parlamento, o sull'appartenenza al gruppo Bilderberg, l'esclusivo salotto di potere mondiale, ma soprattutto su chi ha vinto le elezioni nel 2008. Ciò non solo gli darà forza, ma anche libertà di manovra senza trasformarlo in un commissario pro-tempore, chiamato a sbrigare il «lavoro sporco» in attesa delle elezioni. Il Pdl è lacerato. In buona fede, di chi dopo aver lavorato ventre a terra per rispondere alle continue richieste europee, ora si vede estromesso. Ma anche per colpe sue: il tribalismo non è mai scomparso dopo il predellino, le correnti sono numerose quanto nella vecchia Dc, il via vai di parlamentari alla fine ha prodotto il patatrac. Anche nel resto della politica italiana e mondiale è così. Solo che nel Pdl tutto appare, come dire, molto pop. Troppo. Il problema maggiore però è un altro: dopo il Cavaliere non si è affermata una classe dirigente in grado di prendere in mano l'Italia in un'emergenza come questa. Tanto più nell'economia: che oggi significa dire tutto. Poteva essere Giulio Tremonti a dare il cambio a Berlusconi. Un anno fa i requisiti c'erano tutti: ministro dei conti in ordine, conosciuto e fino ad allora apprezzato in Europa, indipendente dalle correnti per quanto un po' leghista. Stimato dal Quirinale, dalla sinistra, dal sindacato e perfino dalla Chiesa. Tremonti poteva accreditarsi come tecnico impersonando la discontinuità nella continuità politica. Purtroppo dalla primavera scorsa l'ex superministro è lost in space. Avere piazzato tecnici bravissimi a lui vicini – Vittorio Grilli, Lorenzo Bini Smaghi, Giuseppe Vegas – in posizioni chiave europee e italiane non gli è stato sufficiente per captare ciò che si preparava tra Berlino e Parigi: l'apparato politico-bancario renano, nonostante gli scheletri negli armadi quanto a titoli tossici, che si accingeva a scaricare su di noi le sue colpe. È già un errore grave, al quale è poi seguito il secondo, capitale: avere sbagliato, sottostimandola, la manovra di luglio. Quella che doveva essere di «manutenzione» e si è invece trasformata in un calvario che dura tuttora. Mentre Tremonti e Berlusconi litigavano sulla Banca d'Italia, dalla manutenzione si è passati al commissariamento e quindi agli ispettori. Non è colpa del solo ministro, s'intende. C'è sempre stata, e rimane, un'incapacità del centrodestra a fare sistema. Una lacuna nell'attrarre talenti e professionalità, anziché a diffidarne con sospetti e quindi respingerli. Mario Monti, che nel '94 fu nominato commissario europeo proprio da Silvio Berlusconi, e che non ha mai nascosto le sue idee liberali, doveva essere una risorsa del centrodestra italiano. Senza chiedergli pedaggi o sudditanze di partito. Come lui altre intelligenze interne, come Antonio Martino, o che da fuori hanno guardato con interesse all'esperienza berlusconiana, come Sergio Romano o Paolo Savona. Capita invece che Monti rischi di diventare il «Papa straniero» del Pd bersaniano. Il quale lo utilizzerà per sminare il terreno dai problemi più indigesti per la sinistra, dal lavoro alle pensioni fino al capitalismo municipale, magari con l'aggiunta della patrimoniale, per poi ripetere la stessa operazione tentata nel '94 dopo Giuliano Amato e Carlo Azeglio Ciampi: vincere le elezioni senza essersi sporcate le mani. Non va bene. E sarebbe un pessimo viatico per Monti, dal quale ormai tutti – dalle sale cambio alle cancellerie – si aspettano tutto. Ecco perché è indispensabile che il Cavaliere ci sia, e ci sia il Pdl. Così potrà essere una ritirata strategica, una Dunkerque. Diversamente sarà una Waterloo. O, per restare all'Italia, una Salò.