La partita più difficile di Re Giorgio
Forse nessuno ha osato ancora dirglielo, conoscendone la scarsa propensione a scherzare sul suo ruolo di presidente della Repubblica, ma nei conciliaboli politici lo chiamano ormai «Re Giorgio». Come una volta, sempre affettuosamente, anche nel suo partito, il severissimo Pci di Palmiro Togliatti, lo chiamavano in gioventù «il principe» sia per il suo stile molto signorile sia, o soprattutto, per la curiosa, impressionante somiglianza fisica con Umberto di Savoia. Che era stato l'ultimo Re d'Italia, succeduto il 9 maggio 1946 al padre dimissionario Vittorio Emanuele III e sostanzialmente deposto dagli elettori meno di un mese dopo con il referendum istituzionale del 2 giugno. Tutti si chiedono nei palazzi della politica, e nelle redazioni dei giornali, che cosa farà Giorgio Napolitano se veramente oggi il bilancio consuntivo dello Stato del 2010 risulterà approvato alla Camera nel modo anomalo di cui si parlava ieri nei corridoi, cioè grazie all'astensione dei deputati delle opposizioni e dei dissidenti della maggioranza più che ai veri e propri voti favorevoli dello schieramento governativo. Il capo dello Stato si aspetterà una visita del presidente del Consiglio per riferire sull'esito politicamente infelice di una votazione sostanzialmente certificatrice della mancanza, ormai, di una maggioranza a sostegno del governo? Che per essere veramente tale, al di là della maggioranza dei presenti prescritta anche in caso di votazione di fiducia, che non sarà comunque quella di oggi sul bilancio consuntivo, deve essere virtualmente di 316 voti: la maggioranza assoluta, pari cioè alla metà più uno del plenum dell'assemblea. Se Silvio Berlusconi non riterrà di salire sul Colle a riferire al presidente della Repubblica, «Re Giorgio» farà finta di nulla o si muoverà? E come? Lo convocherà per dirgli la sua sull'accaduto e magari invitarlo alle dimissioni, come vorrebbero e si aspettano le opposizioni? Che per molto meno, senza neppure un voto analogo a quello che si prevedeva ieri sul bilancio consuntivo, nelle settimane e nei mesi scorsi hanno più o meno esplicitamente sollecitato un intervento del capo dello Stato per una specie di apertura d'ufficio della crisi, senza neppure le dimissioni del presidente del Consiglio, o addirittura per lo scioglimento anticipato delle Camere, in uno scenario allucinante da colpo di Stato. Come lo ha più volte, e giustamente, definito sul suo Il Riformista uno scandalizzatissimo Emanuele Macaluso, vecchio compagno di partito, amico e quasi coetaneo di Napolitano. O il capo dello Stato, con o senza un passaggio del presidente del Consiglio nei saloni e uffici del Quirinale, deciderà di esprimere le sue valutazioni con qualche esternazione immediata, verbale o scritta di suo pugno, come usa fare in tutte le occasioni importanti o solo significative? O che tali egli considera. E le considera quasi tutte, per il maniacale e meritevole rispetto che egli ha delle sue funzioni, e per la consapevolezza del peso che le sue parole possono avere in un Paese, e in un contesto politico, in cui lui risulta godere del massimo indice di gradimento. Se una valutazione dovesse arrivare da Napolitano, anche senza bisogno di attendere nuovi ed altri passaggi parlamentari, compreso il voto di fiducia praticamente già prenotato dal Cavaliere al Senato su un maxi-emendamento alla legge ex finanziaria, oggi chiamata «di stabilità», in esame appunto a Palazzo Madama, non ci sarebbe da stupirsi. E neppure da scandalizzarsi, va detto sin d'ora con chiarezza e onestà a qualche fondamentalista, chiamiamolo così, della maggioranza. Proprio a proposito di chiarezza, il capo dello Stato non poteva mostrarne una maggiore nella nota ufficiale diffusa giovedì scorso, alla fine delle consultazioni «informali» o «non protocollari» avute con i partiti di opposizione e di maggioranza per fare il punto della situazione nel bel mezzo della tempesta dei mercati finanziari, e in vista della partecipazione dell'Italia al summit mondiale di Cannes sui problemi economici. «I prossimi sviluppi dell'attività parlamentare - aveva testualmente avvertito Napolitano al termine di quella nota - mi consentiranno di valutare concretamente l'effettiva evoluzione del quadro politico istituzionale». Che nelle consultazioni gli era risultato caratterizzato dallo scontro fra due linee. Da una parte il capo dello Stato aveva registrato la disponibilità delle opposizioni non tanto a favorire - come forse egli avrebbe preferito - il percorso parlamentare delle urgenti misure che il governo si proponeva di adottare per cercare di tranquillizzare i mercati alle prese con i titoli del nostro debito pubblico e rispondere alle attese rigoriste della Banca Centrale e dell'Unione Europea, quanto a impegnarsi per la formazione e il sostegno ad un nuovo governo. Che gli oppositori ritenevano, e ritengono tuttora, una premessa irrinunciabile ad ogni altro discorso su come fronteggiare la crisi economica e finanziaria. Dall'altra parte, il presidente della Repubblica aveva registrato la convinzione delle «forze della maggioranza», in particolare del Pdl e della Lega, le cui delegazioni aveva ricevuto a conclusione del giro di consultazioni, di disporre dei numeri necessari a continuare a fronteggiare da sole la situazione, in caso di persistente chiusura delle opposizioni: una convinzione rafforzata dalla prospettazione della sola alternativa delle elezioni anticipate in caso di crisi di governo. Si avvicina l'ora di tirare le somme, ciascuno nel proprio ambito e nella propria sede: i partiti in Parlamento, il Cavaliere a Palazzo Chigi e «Re Giorgio» al Quirinale.